News originale in inglese: 1998-41 - Immagini e filmati

  

HDF australe

HDF-SRivolgendo la sua visione penetrante verso il cielo meridionale, il telescopio spaziale ha esplorato un "corridoio" di universo lungo 12 miliardi di anni luce rivelando un assortimento di migliaia di galassie mai viste prima. L’osservazione, durata 10 giorni, è stata chiamata Hubble Deep Field South (HDF-S) ed è complementare ad una precedente esplorazione del cielo profondo eseguita nel 1995, quando il telescopio era stato puntato verso una piccola regione nei pressi dell’Orsa Maggiore (vedi HDF). La nuova area bersaglio si trova invece nella costellazione del Tucano, presso il polo Sud celeste.

Le due osservazioni rappresentano ora due "campioni" dell’universo che possono essere confrontati e studiati per approfondire la conoscenza del cosmo, la storia delle stelle e l’evoluzione delle galassie. Per estendere a tutto il cielo un’indagine altrettanto approfondita gli astronomi impiegherebbero ben 900.000 anni.

Il nuovo deep field rappresenta una miniera preziosa di informazioni per i nuovi e potenti telescopi con base a terra localizzati nell’emisfero australe (come ad esempio i telescopi VLT dell’Osservatorio Eso di Cerro Paranal). Essi proseguiranno le osservazioni dell’Hubble per valutare con precisione le distanze delle galassie.

Anche in questo caso è stata scelta una regione che potesse essere osservata con continuità durante tutte le orbite del telescopio spaziale attorno alla Terra. Le aree che possiedono questo vantaggio sono necessariamente confinate alle regioni polari della sfera celeste.

Molto importante risulta la presenza di un quasar nel campo HDF-S. I quasar sono oggetti estremamente luminosi e lontani. Si ritiene che si tratti di nuclei attivi di galassie e che la loro fonte di energia derivi da un buco nero estremamente massiccio. I quasar potrebbero essere oggetti molto antichi, formatisi in un universo primordiale. La luce di un quasar ha viaggiato per diversi miliardi di anni-luce prima di arrivare a noi, attraversando vaste regioni di nubi primordiali di gas. La radiazione di un quasar trasporta quindi la "firma" spettrale di quelle lontane nubi altrimenti invisibili e ci permette di studiarne le caratteristiche. Possiamo paragonare la luce di un quasar a quella di un faro che fende la nebbia notturna.

Il primo HDF ha impegnato centinaia di astronomi in tutto il mondo e continua a rappresentare una fonte notevole di informazioni per lo studio dell’universo. Se pensiamo che da questo unico e ristrettissimo angolo di cielo sono state tratte numerose e importanti conclusioni riguardanti il tasso di formazione stellare e l’evoluzione delle galassie, diventa evidente l’importanza di avere un secondo campione che possa essere utilizzato per confermare le precedenti deduzioni. La presenza di un quasar costituisce inoltre una fonte di informazioni addizionali che l’HDF nord non conteneva.

Per l’HDF-S sono state utilizzate tutte le camere e gli strumenti in dotazione al telescopio. Oltre alla camera WFPC2 utilizzata anche per il precedente deep field, sono entrati in funziona anche lo Space Telescope Imaging Spectrograph (STIS) e la Near Infrared Camera and Multi-Object Spectrometer (NICMOS).

Ciascuno di questi strumenti è specializzato nel raccogliere una particolare gamma di lungezze d’onda dall’ultravioletto all’infrarosso. Per l’HDF nord invece si utilizzò soltanto la camera WFPC2 dato che lo STIS e il NICMOS non facevano ancora parte della dotazione dell’Hubble al tempo dell’osservazione.

La camera WFPC2 ha raccolto le lunghezze d’onda del vicino ultravioletto, del blu, del visibile e del vicino infrarosso. La camera NICMOS è invece specializzata per l’infrarosso. L’infrarosso consente sia le stime di distanza (l’espansione dello spazio ha "allungato" le onde di lunghezza d’onda originariamente minore trasformandole in onde più lunghe appartenenti alla gamma dell’infrarosso), sia di rilevare stelle nascoste all’interno di regioni galattiche ricche di polveri. Lo STIS è utilizzato per ottenere immagini di stelle particolarmente calde che emettono nell’ultravioletto e per analizzarne la composizione chimica.

Sono state necessarie ben 150 orbite dell’Hubble attorno alla Terra per ottenere il campo principale e 27 per i campi circostanti. Le riprese acquisite sono 995 con un tempo di esposizione che va dai 30 ai 45 minuti ciascuna. L’immagine finale è una combinazione di queste riprese al fine di ottenere l’equivalente di un lunghissimo tempo di esposizione. Il risultato è un’abbagliante galleria di 2.500 galassie. Appaiono oggetti di magnitudine 30 (6 miliardi di volte più deboli del più debole oggetto osservabile ad occhio nudo). Sono stati usati 8 filtri centrati su altrettanti settori dello spettro. Dall’analisi di questi "colori" gli astronomi possono stimare, fra le altre cose, le distanze, le temperature e le velocità dei corpi celesti osservati.

I colori delle galassie ci forniscono indicazioni sulle loro distanze

Analizzando il colore delle galassie gli astronomi possono determinare il redshift, cioè lo spostamento verso il rosso delle loro lunghezze d’onda, un valore utile per stimare la distanza. Il redshift è proporzionale alla loro velocità di allontanamento dalla Terra. Dato che l’universo è in espansione, le galassie più lontane si allontanano con velocità maggiore e quindi hanno un maggiore redshift. In ogni caso la stima della distanza ottenuta con il valore di redshift non è precisa perché non conosciamo ancora con sufficiente esattezza il tasso di espansione dell’universo.

Utilizzando il telescopio W.M. Keck di 10 metri di diametro che si trova in cima al Mauna Kea (Hawaii), gli astronomi sono riusciti a stimare i valori di redshift di 125 galassie e, in modo approssimato, di altre 500, fra le più vicine. Per le galassie lontane, non raggiungibili dalle capacità dei telescopi con base a terra, gli astronomi si sono rivolti ad un’altra tecnica: utilizzare le informazioni di colore ottenute con il Telescopio Spaziale Hubble.

Essi hanno confrontato le esposizioni Deep Field prese con differenti filtri. Numerose galassie che sono visibili alle lunghezze d’onda ottiche, scompaiono bruscamente in luce ultravioletta. Questo dipende dal fatto che la loro radiazione, durante il lunghissimo tragitto verso la Terra, attraversa grandi quantità di idrogeno e questo gas assorbe proprio le lunghezze d’onda dell’ultravioletto. L’effetto cumulativo di questo assorbimento provoca la scomparsa nell’ultravioletto delle galassie più lontane (l’effetto è chiamato "mascheramento" o "scomparsa" dell’ultravioletto – ultraviolet dropuot) allo stesso modo in cui le luci stradali scompaiono in lontananza nella foschia mattutina.

Lo studio di immagini ottenute dall’Hubble e le osservazioni con strumenti terrestri consentono di calcolare in maniera affidabile la distanza di migliaia di questi oggetti lontanissimi. Gli astronomi sono in grado di analizzare i colori di galassie lontane anche 11,5 miliardi di anni-luce presenti nel campo HDF. La luce che ci raggiunge da questi oggetti è stata emessa quando l’universo aveva appena un miliardo di anni di età.

Galassie irregolari

Un sorprendente numero di galassie, anche fra le più luminose, possiede forme peculiari. La relazione tra queste galassie irregolari e quelle attuali, molto più organizzate, non è ben conosciuta. Questa apparente evoluzione di forme può essere spiegata solo in parte considerando che la camera WFPC2 vede di queste galassie soltanto la luce ultravioletta che è stata spostata alle lunghezze d’onda visibili.

La nuova camera all’infrarosso NICMOS (Near Infrared and Multi-Object Spectrometer) ci permette invece di catturare l’"originaria" banda visibile dello spettro che è stata spostata nell’infrarosso. Alcune galassie infatti, che appaiono irregolari nell’ultravioletto, risultano avere una forma più "normale" se viste nell’infrarosso. Altre invece, che conservano la loro forma peculiare in entrambi i casi, sono effettivamente irregolari.

Piccole e irregolari galassie si adattano bene all’ipotesi evolutiva di tipo "dal basso all’alto" (bottom up) secondo la quale le galassie si sono formate a partire dall’aggregazione di piccoli gruppi di stelle evolvendo poi verso strutture di dimensioni più grandi.

Alla ricerca di stelle nascoste

Gran parte della formazione stellare dell’universo potrebbe svolgersi all’interno delle galassie ricche di polveri. Le osservazioni in luce visibile dell’HDF hanno mostrato che il tasso di formazione stellare ha avuto un massimo tra i 7 e i 9 miliardi di anni fa. Questo risultato è compatibile con i precedenti studi di composizione chimica del mezzo intergalattico basati sull’analisi di nubi gassose presenti lungo la linea di visuale tra noi e lontani quasar. Ciononostante è sorprendente la scarsezza di galassie lontane con alto tasso di formazione stellare. Gli studi di galassie ellittiche vicine ci fanno supporre che esse abbiano formato gran parte delle loro stelle quando l’universo aveva da 1 a 3 miliardi di anni di età. Durante la fase di formazione stellare esse avrebbero dovuto essere molto luminose e numerose. Il campo Deep Field ci mostra alcune galassie luminose caratterizzate da intensa formazione stellare, ma tutt’altro che sufficienti. Forse le osservazioni in luce visibile non riescono a mostrarci gran parte dell’attività di nascita stellare.

La presenza di polveri ci nasconde la luce visibile e l’ultravioletto proveniente dalle galassie, ma non conosciamo il grado di incidenza di questo effetto di oscuramento. Essenziali sono le osservazioni effettuate con radiotelescopi, con strumenti all’infrarosso, e con il nuovo SCUBA, un telescopio di Hawaii che vede attraverso le polveri osservando alle lunghezze d’onda submillimetriche. Queste tecniche ci hanno permesso di scoprire diversi oggetti con una controparte ottica debole o nulla, che possono rappresentare lontane galassie ricche di polveri con intensa formazione stellare.

Credit: Association of Universities for Research in Astronomy (AURA), NASA, Stsci.