Si veda anche questo eccellente articolo in inglese “Creating Hubble’s Technicolor Universe” che racconta come vengono preparate le immagini di HST destinate al pubblico.
Come fa HST a riprendere le immagini?
Ai primordi dell’esplorazione spaziale le immagini venivano prese con vere e proprie macchine fotografiche; a volte venivano sviluppate in laboratori fotografici automatici all’interno delle sonde stesse. Tutte le fotografie dello sbarco sulla Luna, ad esempio, sono state riprese da una macchina fotografica Hasselblad fissata alla tuta spaziale di Aldrin. L’evoluzione tecnologica per fortuna ha messo a disposizione una nuova classe di sensori elettronici a stato solido chiamati CCD, i quali trasmettono l’immagine direttamente sotto forma di segnali elettrici.
Il sensore CCD è una griglia, in genere quadrata, di piccolissimi sensori di luce (le dimensioni tipiche di ogni elemento sono 10×10 micron, ovvero un centesimo di millimetro. Durante l’esposizione essi accumulano cariche elettriche in misura proporzionale alla intensità di luce che cade su di essi. Al termine viene effettuato un conteggio delle cariche accumulate da ciascun sensore, da cui si ricava il valore della luminosità.
Perché le immagini di HST hanno una strana forma “a scaletta” ?
La Wide-Field Planetary Camera 2 (WFPC2), cioè lo strumento che a bordo di HST ha il compito di effettuare le riprese, è composta da quattro sensori CCD uguali fra loro. Tre di essi osservano altrettante zone adiacenti con lo stesso ingrandimento, la quarta (la Planetary Camera) invece è in grado di vedere con un ingrandimento doppio (dunque l’area ripresa è un quarto rispetto alle Wide-Field Cameras). Quando si assemblano le porzioni dunque ci saranno tre quarti del campo provenienti dalle Wide-Field e un sedicesimo di campo (un quarto di un quarto) proveniente dalla Planetary Camera. Osservando attentamente si notano anche i raccordi fra le singole immagini.
Gli oggetti celesti sono davvero così?
Due delle meravigliose immagini inviate dal telescopio spaziale “Hubble”. A sinistra la nebulosa “granchio”, ciò che rimane di una stella esplosa circa mille anni fa. A destra invece abbiamo la nascita di stelle nella nebulosa “aquila”. Questi oggetti astronomici appaiono realmente come li ha ritratti il telescopio spaziale? se con una astronave ci trovassimo nei paraggi, li vedremmo davvero così?
Si e no.
L’occhio umano è il risultato di una selezione naturale che ha favorito l’evoluzione di uno strumento adatto ad operare in condizioni di luce diurna e nel particolare intervallo di lunghezze d’onda emesso dal Sole. La pupilla è in grado di adattarsi alla luce ambientale restringendosi in caso di luce troppo intensa, oppure allargandosi quando non c’è luce a sufficienza. Se però la luce emessa dell’oggetto osservato è al di sotto di una certa soglia scompare la capacità di percepire i colori, si ha cioè la visione scotopica.
Purtroppo questo è ciò che accade quando si osservano gli oggetti celesti, che rimangono troppo deboli anche se osservati con un potente telescopio. Le meravigliose sfumature di colori delle nebulose, la ricchezza di colori delle nebulose planetarie non si possono osservare direttamente; gli unici oggetti che appaiono realmente colorati sono le stelle più luminose. Dunque l’unico modo di registrare i colori di un oggetto astronomico è accumulare la sua luce per mezzo di una pellicola fotografica o di un sensore CCD. Una opportuna elaborazione ci restituirà un’immagine in colori naturali, cioà come li vedrebbe il nostro occhio se la luminosità dell’oggetto fosse sufficientemente intensa.
Cosa sono i puntini e le striscie luminose presenti su alcune immagini?
Sono le tracce lasciate sui sensori dai raggi cosmici, particelle molto energetiche abbondanti nell’ambiente spaziale. Sulla Terra ce ne sono molti meno perché vengono assorbiti, per nostra fortuna, dall’atmosfera. Il raggio cosmico incontrando una cella del sensore vi deposita una parte della sua notevole energia, e dunque è come se il sensore registrasse in quel punto una sorgente luminosa molto intensa (puntino bianco). Essi sono nocivi alla qualità delle immagini, tuttavia, dal momento che le loro direzioni sono casuali, è sufficiente mediare un certo numero di pose prese in momenti diversi per eliminare il problema.
Il vantaggio di combinare pose diverse consiste anche nell’aumento di sensibilità nei confronti di oggetti astronomici molto deboli.
Come appaiono le immagini grezze?
I dati che alla fine giungono sul tavolo, anzi sul computer, degli scienziati passano attraverso molte fasi. Una parte dell’elaborazione viene fatta in modo sequenziale e automatico, come in una catena di montaggio (ad esempio per rimuovere i raggi cosmici e le imperfezioni del sensore). Al termine di questa fase i dati vengono calibrati, ovvero scalati in modo che si possano compiere misure di valore scientifico.
I dati grezzi provenienti dai sensori consistono in una serie di numeri che rappresentano l’intensità luminosa misurata da ogni elemento sensibile del CCD. Ulteriori elaborazioni vengono fatte per rendere meglio visibili le regioni di interesse. Ad esempio il software può regolare la luminosità ed il contrasto, esattamente come un normale televisore.
Come vengono resi i colori?
I sensori a bordo del telescopio spaziale non sono CCD a colori, essi possono soltanto riprendere immagini in bianco e nero. In altre parole i CCD registrano solo l’intensità luminosa di ciò che vedono. L’unica elaborazione possibile a questo stadio è il negativo, ovvero invertire la sequenza di sfumatire dal bianco al nero. Questo viene fatto perché l’occhio percepisce meglio una macchia scura su campo chiaro piuttosto che il contrario. Per questo motivo quasi tutti i cataloghi astronomici sono stampati in negativo.
Fondamentalmente ci sono due modi per ricavare immagini a colori partendo da originali in bianco e nero.
1 – la tecnica dei falsi colori (o colori codificati)
È possibile assegnare arbitrariamente una scala di colori a quella che originariamente era la scala dei grigi. In questo modo si ha una mappa (in inglese palette) che mette in corrispondenza ogni livello di intensità luminosa ad un colore. L’occhio infatti è molto più sensibile a variazioni di colore che a variazioni di luminosità, per cui i colori sono in grado di mostrare deboli sfumature con maggiore contrasto.
La barra colorata a fianco sotto ciascuna immagine mostra come sono stati codificati i livelli di grigio.
Palettes differenti possono essere usate per enfatizzare specifiche zone dell’immagine e mettere in rilievo una certo elemento.
2 – la tecnica del filtraggio
L’alternativa consiste nel filtrare l’immagine interponendo tra la sorgente luminosa e il sensore un materiale che lasci passare solo certe lunghezze d’onda (filtro). In particolare, se scegliamo un filtro verde, uno rosso ed uno blu, riusciamo da questre tre immagini in bianco e nero, a ricostruire l’immagine in colori naturali, come mostra il seguente esempio.
L’immagine originale |
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dopo avere interposto un filtro rosso |
il relativo fotogramma |
dopo avere interposto un filtro verde |
il relativo fotogramma |
dopo avere interposto un filtro blu |
il relativo fotogramma |
Ecco come il telescopio spaziale ha assemblato tre immagini nei tre colori primari per realizzare la bellissima immagine della nebulosa M16.