potrebbe spiegarmi il concetto di scienza presso la filosofia classica?

Si è soliti tradurre il greco «epistéme» con il nostro «scienza». In realtà i significati dei due termini non coincidono. La «scienza», come noi la intendiamo oggi, in virtù del suo metodo sperimentale ha un carattere storico ed è soprattutto aperta costantemente alla confutazione. Il filosofo K. Popper individuò infatti nel «criterio di falsificazione» – la possibilità per una teoria di essere confutata – ciò che fondamentalmente distingue ciò che è scientifico e ciò che non lo è (La logica della ricerca). Il ricercatore è chi, di fronte ad un problema che nasce sempre relativamente alla tradizione storico-scientifica a cui appartiene ma anche a nuovi dati empirici acquisiti, pone un’ipotesi che per essere accolta come tesi valida deve essere verificata. La verificazione, d’altra parte, non offre una conoscenza ultima e definitiva in quanto la teoria, seppur accettata dalla comunità scientifica, rimane aperta alla confutazione, al fatto che «prima o poi» possa accadere un evento che la confuti. La «scienza moderna» ha sia un carattere storico, in quanto il ricercatore si muove sempre all’interno di una cornice storica e pre-teorica costituita da un metodo e da un corpum theoricum, e di sperimentazione-confutazione.

Per i Greci l’epistéme era qualcosa di ben diverso. Questo termine, nella storia della filosofia classica, è sempre stato contrapposto ad un altro: dóxa. Epistéme è la conoscenza di ciò che è assoluto, immutabile, imperituro, sempre uguale. Dóxa sta solitamente ad indicare le «opinioni», cioè un sapere imperfetto, soggettivo e, soprattutto, che si rifà all’esperienza dei sensi, a ciò che diviene e non permane, e talvolta alla facoltà immaginativa.
I primi a porre un dualismo di questo tipo furono probabilmente i pitagorici per i quali il cosmo aveva il proprio «principio» (arché) nel «numero» – furono convinti da ciò dallo stretto rapporto che intercorre tra musica e matematica e dall’armonia che esse esprimono Pertanto il sapere più idoneo per comprendere l’essenza del cosmo era l’aritmetica, cioè quella conoscenza che ha come oggetto ciò che è appunto «assoluto ed immutabile»: «il numero».
Eraclito e Parmenide continueranno a concepire epistéme come la conoscenza di ciò che è assoluto e uno, contrapponendolo all’esperienza che invece non solo ci offre la molteplicità dei fenomeni che ci ingannano sulla loro conoscenza, ma ci dà solo un punto di vista soggettivo. Per elevarsi alla conoscenza di ciò che è oggettivo era necessario l’uso del «lògos». Per entrambi elevarsi al «lògos» significava trovare l’unità di ciò che nei sensi si presentava invece molteplici e configgente. In ogni caso epistéme rimaneva ancora un sapere vincolato al misticismo, alla rivelazione della divinità e delle sue «leggi», presentato con un vocabolario legato essenzialmente ancora alla tradizione oracolare. In questi pensatori non si distingue il lògos dalla realtà, così come i pitagorici non distinguevano la matematica dalla fisica, anzi spesso erano convinti che anche le vicende umane – come di tradizione nello spirito tragico greco – erano determinate da leggi immutabili.
La tradizione sofistica dubitò seriamente della possibilità effettiva di una epistéme, o perché la conoscenza umana è prodotto esclusivamente umano e dunque relative alle sue possibilità, e non può raggiungere alcun sapere extra-umano assolutamente oggettivo ed assoluto (Protagora), o perché il linguaggio del l’uomo risulta essere di per sé ambiguo ed imperfetto e questo non gli dà la possibilità né di conoscere e né di esprimere verbalmente «ciò che è» (Gorgia).

Un prima forma di epistéme dotato di proprio metodo e di una teoria solida alle spalle è offerta dalla filosofia di Platone, il quale eredita il dualismo epistéme/dóxa della filosofia pitagorica e parmenidea, fondando su di esso addirittura la propria filosofia. Nella Repubblica Platone distingue almeno quattro tipi di conoscenza; le prime due vincolate ai sensi e alla immaginazione (dóxa), le altre due al lògos e alla matematica (epistéme): 1) «l’immaginazione» (eikasìa) in cui si confondono le immagini della propria fantasia con la realtà; 2) «la credenza» (pìstis) in cui si «crede» che la realtà sensibile sia l’unica esistenza e conoscibile; 3) «il pensiero discorsivo» (dìanoia), cioè lo studio degli enti matematici e geometrici, i quali sono immutabili e sempre uguali; 4) «la pura intellezione» (noesis) che ha come fine la contemplazione delle idee, intese come «essenza» (ousìa) delle cose sensibili.
Ed infatti nel Menone Platone espone la sua teoria delle idee. Qui la conoscenza è fondata non solo sulla matematica ma sulla «dialettica», vale a dire una discussione tra due o più soggetti nella quale è possibile «risalire» all’«essenza» delle cose, cioè alla loro «definizione d’essere». È un risalire poiché si parte dai fenomeni molteplici, in divenire e perfetti, per raggiungere poi l’unità dell’idea (eidos) che li determina. A Platone bisogna dar atto di aver legato l’epistéme alla dialettica tra individui – cioè la ricerca di un sapere intersoggettivo per mezzo del dialogo – mediante la quale si cerca la chiarificazione di ciò che inizialmente è oscuro o soggettivo, ma allo stesso tempo bisogna biasimarlo per aver escluso da un ruolo attivo di questa ricerca proprio l’esperienza sensibile.
L’epistéme in realtà troverà altre forme in scuole come quella atomista di Leucippo e Democrito, quella naturalista di Anassagora e quella peripatetica di Aristotele. In questi pensatori si continua a concepire l’epistéme come conoscenza di ciò che è assoluto ed immutabile, ma si tende a non escludere dalla ricerca la molteplicità dei fenomeni naturali, i quali hanno in sé il principio che li produce e attiva nel proprio divenire.
Per Democrito tutte le cose erano costituite da particelle indivisibili dette «atomi», i quali erano intuibili solo mediante l’uso dell’intelletto (per questo aveva sia caratteristiche fisiche che geometriche, sintetizzando così la realtà fisica con quella matematica esattamente come fecero i pitagorici). Per Anassagora le cose erano formate da piccoli semi detti “sperma”, mentre per Aristotele ogni cosa era un «sinolo» (dal greco “sin” e “olos”, cioè “tutto insieme”), ovvero l’insieme di forma (eìdos o morfé) e di materia (ulé).
Le forme di cui parla Aristotele nella Fisica non erano neanche quelle di tipo platonico, non solo perché non erano separata dalla molteplicità delle cose (per Platone giacevano in un luogo ideale detto «iperuranio» e non entravano in contatto con le cose sensibili, le quali partecipavano alle idee solamente per “imitazione”), ma anche perché la forma aristotelica è una sorta di «causa formale», cioè il «principio attivo» che dà avvio al processo di determinazione della materia. Per Aristotele la conoscenza (epistéme) si fondava sull’osservazione dei fenomeni a partire dai quali si giungeva alla loro forma-principio comune (induzione) e sulla logica sillogistica per mezzo del quale si partiva da questo principio per dedurre poi tutto ciò che implicava (deduzione).

Si può notare come fondamentalmente nell’Antica Grecia l’epistéme non era associata allo sperimentalismo, il quale era pressoché ignorato o sconosciuto presso i Greci. Epistéme aveva a che fare con idealità, immutabili ed imperfette, sebbene in Aristotele fossero all’interno della materia.
Con la crisi dell’Ellenismo, il quale non fece che riprendere e rielaborare le tesi sostenute dai filosofi precedenti, incominciò in Età Romana ad affermarsi la tendenza alla «scienza specialistica» con i grandi matematici (Archimede, Apollonio), i grandi astronomi (Tolomeo, Ipparco) e la «medicina» di Galeno. L’idea di una «scienza» che racchiudesse tutte le altre, che fosse onnicomprensiva della realtà e potesse offrire ai saperi particolari i principi su cui fondarsi stava pian piano scomparendo. Con la Crisi dell’Impero Romano e l’affermazione del Cristianesimo, l’epistéme, sia come dialettica discorsiva che matematica che conoscenza dei fenomeni naturali, era ormai scomparsa, lasciando spazio alla mistica cristiana, all’intuizione, alla fede teologica, al neoplatonismo mistico. Solamente con la filosofia araba (Al Farabi, Avicenna, Averroè) dal XI-XII sec. d.C. l’epistéme greco-classica ebbe nuovo impulso anche in Europa sottoforma di filosofia aristotelico-averroistica seppur sempre riletta in chiave cristiana. Ma con la rinascita della filosofia aristotelica, si registrò dal XIII sec. la nascita di una filosofia, quella anglosassone di Ruggero Bacone, che incominciò a parlare di «scienza sperimentale» contrapposta a quella greco-cristiana esclusivamente ed eccessivamente intellettualistica.