La formulazione della teoria della relatività di Einstein ha avuto conseguenze nel campo della filosofia? Se sì quali filosofi in particolare se ne sono occupati?

In filosofia molto difficilmente una singola teoria può avere un influsso determinante. È più plausibile invece che la filosofia si faccia carico di manifestare, seguendo diverse direzioni, l’affermarsi di una nuova «visione del mondo» o la «crisi» di quella vecchia che un tempo si era consolidata.
La teoria della relatività di Einstein ha avuto sicuramente una maggiore influenza all’interno della fisica o di riflesso della società contemporanea (nell’immaginario collettivo) più che in generale nella filosofia. C’è stato addirittura chi [si veda G. Giordano, Tra Einstein ed Eddigton. La filosofia degli scienziati contemporanei, Messina, 2000] ha definito Einstein l’ultimo dei grandi «fisici classici», legato ancora una visione «tradizionale e conservatrice» della natura.
La messa in questione dell’esistenza del tempo era in filosofia già cosa nota (si pensi ad Agostino che definisce il tempo come «distensione dell’anima» o H. Bergson come «durata»). Una prima problematizzazione radicale dello spazio e del tempo è riscontrabile in I. Kant che, nella sua Critica della Ragion Pura (1781), afferma che nella sensibilità umana sono presenti forme a priori che pre-determinano la realtà empirica che percepiamo (le forme di «spazio e tempo» appunto). Pertanto, spazio e tempo erano per Kant delle “realtà intuitive” relative all’apparato sensoriale. Tuttavia essendo «pure» (cioè, a priori e condizione trascendentale dell’a posteriori) esse erano presenti in tutti gli uomini. Questo significava che discipline come «la matematica» e «la geometria euclidea» si fondavano su “forme a priori” (rispettivamente sul tempo e sullo spazio). Il fatto di fondarsi su “forme a priori” salvava la validità universale di queste discipline.
Kant ovviamente aveva ancora un’idea classica sia di matematica che di geometria che di fisica – il giovane Kant era una grande estimatore di Newton nonché studioso della fisica meccanicistica. Dalla seconda metà del XIX sec. sino alla prima metà del XX sec. si assisté invece ad una crisi globale dei fondamenti che toccherà prima la geometria (si pensi alla geometria non-euclidea di Gauss, di Bolyai e soprattutto di Reimann), poi la logica matematica (si pensi al teorema dell’incompletezza di Goedel, 1931) e la fisica (si pensi alla teoria quantistica di Bohr, al principio di indeterminazione di Heisenberg e naturalmente alla teoria della relatività di Einstein).
La «crisi dei fondamenti» toccava tutto quel nocciolo duro rappresentato dalla geometria classica e dalla fisica classica, questa ultima sviluppatasi dal XVII sec. con grandi scienziati-pensatori come Galilei, Cartesio e Newton e con il loro meccanicismo (la natura come un grande meccanismo). Nel corso del ‘700 divenne usuale associare in fisica il meccanicismo imperante al determinismo (ogni avvenimenti in natura è “determinato” rigorosamente e necessariamente da una causa naturale) esasperato (si pensi a LaPlace). Tutto ciò contribuì il “mito del progresso” tipico dei positivisti come Comte: secondo cui la scienza è una conoscenza progressiva del reale e il suo sviluppo coincide con il progresso dell’umanità tutta. La crisi delle cosiddette «scienze esatte» pose fine alle pretese «progressiste» e di «certezza assoluta» della scienza. Heisenberg mostrò che si deve ammettere la «probabilità» nella conoscenza fisica, così come Bohr introdusse il concetto (impensabile per la fisica determinista e meccanicista classica) di «casualità», funzionale alla spiegazione della sua teoria quantistica, nonché l’esigenza di una stratificazione della realtà.
Questi cambiamenti così radicali fecero maturare l’idea che la scienza non fosse un sapere progressivo e certo, bensì costituito da «rotture epistemologiche» (Bachelard), «paradigmi normali e rivoluzionari» (Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, 1962) e soprattutto «storico» (in questo senso è stato fondamentale il contributo di Hegel e la sua concezione di «scienza» storicamente determinata). K. Popper ha poi criticato l’impostazione metodologica classica sostenendo che la scienza procede sempre per deduzione (partendo cioè da ipotesi, idee già costituite e attraverso le quali lo scienziato pre-ordina la realtà che si appresta a conoscere analiticamente): si è sempre all’interno di un contesto teorico che pre-determina l’oggetto da conoscere (Logica della scoperta scientifica, 1959). P.K. Fayerabend sosterrà addirittura che non esiste alcun metodo unico nella scienza; in essa vige una sorta di «epistemologia anarchica» per la quale non esiste alcuna «regola unica» o «criterio d’eccellenza» alla base della ricerca scientifica (La scienza in una società libera, 1978).
Concludendo, l’importanza della «teoria della relatività» è più fisica che filosofica. Essa manifesta effettivamente una crisi di fondamenti – Einstein prevedeva l’applicazione della geometria non-euclidea nella sua teoria – seppur egli rimaneva forse il più «conservatore» tra i fisici della prima metà del Novecento, cioè il più legato alla «fisica classica». È dunque in generale questa «crisi dei fondamenti» che ha influenzato enormemente la filosofia della scienza portando in particolare all’abbandono della visione progressista baconiana e laplaciana di scienza (tra l’altro avvenimenti storici e tragici, come la Prima e Seconda Guerra Mondiale, avevano mostrato come la scienza non necessariamente, se applicata alla tecnologia, portasse ad un effettivo progresso umano; di ciò ne parlerà anche E. Husserl nella “Crisi delle scienze europee”, 1936) in favore di una visione più storicista e post-moderna (o post-positivista) della scienza stessa.