Vorrei chiarimenti sul significato di nulla e vuoto: più precisamente capire se i due termini esprimono lo stesso significato fisico o se essi si riferiscono a due concetti ben distinti e che relazione, in quest’ ultimo caso, esite tra i due.

Direi che si tratta di due concetti ben distinti sebbene nel corso della storia del pensiero filosofico e scientifico si siano incrociati spesso sino a coincidere. Da un lato, il «nulla» appare come un «quantificatore», cioè una parola che svolge il ruolo di indicare l’assenza di un’unità qualsiasi (ad esempio: «nessuna mela», «nessuno di loro», «non c’è nulla» riferito ad un qualsiasi oggetto). È ovvio che nel linguaggio quotidiano uno dei significati di «vuoto» può coincidere con quello di «nulla» (ad esempio: «questa stanza è vuota» può essere usata in vece di «non c’è nessuno in questa stanza»). Dall’altro lato, – mi pare di capire – che lei si riferisce al «vuoto fisico» tradizionale il quale sarebbe un luogo non composto da atomi e quindi privo di materia discreta. Almeno fino al XIX sec. la scienza ha rifiutato l’idea che il vuoto fisico potesse realmente esistere facendo propria una massima tipica della Scolastica: «la natura non fa salti». In realtà «l’ipotesi quantistica» ha messo in seria questione queste «certezza», mostrando la possibilità effettiva di un «vuoto quantistico».

Nell’Antica Grecia la parola «vuoto», detta «medén», assume una propria importanza con gli atomisti, i quali «giunsero ad ammettere il non essere, lo spazio vuoto ed infinito, entro cui soltanto può verificarsi il movimento» degli «atomi», cioè i singoli enti (ciò che è), detti atomi («indivisibili») perché «ingenerati, imperituri, immutabili ed indivisibili». Gli atomi erano entità formali e geometriche la cui conoscenza era possibile grazie all’astrazione mentale che estraeva le forme dagli oggetti sensibili. La «teoria del vuoto» di stampo atomista venne poi ereditata dagli epicurei, i quali affermavano che gli atomi avevano un movimento, a causa del loro peso, dall’alto verso il basso, perpendicolare e con la medesima velocità. Poteva accadere tuttavia che si verificasse una «declinazione» (in lat. clinamen) che facesse scontrare due o più atomi, i quali una volta aggregati tra di loro formavano una «mondo». I mondi potevano essere infiniti poiché infiniti erano gli atomi e lo spazio vuoto in cui si muovono. Il divenire delle cose non implica l’assorbimento dell’essere nel non essere, in quanto è dato dall’aggregazione e disgregazione di atomi.
I Greci, e dopo di loro la tradizione latina e cristiana, associavano più di altri il «vuoto» con il «non essere». Accanto a quella «teoria del vuoto» se ne sviluppò un’altra che non ammetteva l’esistenza del «non essere» e, soprattutto, confondeva «l’essere di natura verbale» detto «einai» con quello di «natura sostantiva», «to eon». Capostipite di questo filone di pensiero fu Parmenide che, nel suo Perì Physeos, mostrò la cosiddetta «Via della Verità» che espone tre verità che influenzeranno enormemente il pensiero occidentale: 1) l’essere e, il non essere non è; 2) si può pensare solo ciò che è, il non essere in quanto non è non è pensabile; 3) lo stesso è dire e pensare, dunque si può dire solo ciò che è. Parmenide espose anche le sette qualità dell’essere: a) ingenerato e imperituro, b) vive in un eterno presente (non ha né passato né futuro), c) è senza fine, d) è intero, indivisibile, continuo, e) unico, f) immobile, g) definito da tutti i lati e simile ad una sfera. Ammettendo esclusivamente solo l’esistenza dell’essere si negava la possibilità del movimento (si pensi al «paradosso della freccia» o «dell’Achille piè veloce» di Zenone) o l’esistenza del tempo.
Aderirono fondamentalmente a queste linea di pensiero sia Platone che Aristotele. Il primo sosteneva l’esistenza delle idee (eidos), ciascuna delle quali è l’archetipo delle cose sensibili ad essa corrispondente nel mondo sensibile. L’«idea» aveva le medesime caratteristiche dell’essere parmenideo, ma Platone dovette ammettere nel Sofista che se vi è pluralità di idee allora ciascuna idea è diversa dall’altra. Dovette così perlomeno ammettere la categoria del «diverso» grazie alla quale un’idea «è diversa» dall’altra o se si vuole «non è» quell’altra. Mentre Platone negava la validità della conoscenza sensibile perché concepita come conoscenza imperfetta rispetto a quella delle idee, Aristotele nella Fisica si occupa di giustificare razionalmente il divenire: egli non ammetteva l’esistenza del non essere in sé, ma di «uno stato di privazione» (stèresis) dal quale poi «il sostrato o la materia indeterminata» si determinava nella propria «forma» (morphè) specifica. Inoltre, sia Aristotele che Platone negavano in assoluto l’esistenza del vuoto nelle proprie teorie cosmologiche.
La tradizione giudaico-cristiana erediterà gran parte delle dottrine platoniche ed aristoteliche dell’essere e del non essere: La concezione di essere parmenideo-platonica si sposa con quella giudeo-cristiana della «creatio ex nihilo».. I filosofi medievali s’impegnano a negare l’esistenza del non essere, e di riflesso del vuoto, in quanto questo implicherebbe il fatto che Dio, oltre all’essere, avrebbe creato anche il non essere, e ciò pare paradossale poiché Dio si presenta nelle Scritture come «ciò che è» [Esodo, 3, 12-15]. Agostino, ad esempio, afferma che termini come «vuoto, nulla, tenebre» denotano esclusivamente una «mancanza» e sono relativi ad un particolare «stato mentale»: «è come voler vedere le tenebre e ascoltare il silenzio: queste due cose le conosciamo per mezzo degli occhi e delle orecchie, non però come essenze, ma come la privazione di determinate essenze» (De civitate Dei, 12, 7). Allo stesso tempo il passo della Genesi del celebre «fiat lux» [Genesi, 1, 1-5], sta, sì, ad indicare che Dio ha creato il mondo dal «nulla», ma inteso come «assenza di luce». Prenderà piede anche una teologia negativa di stampo neoplatonico (si pensi a Pseudo Dionigi), nella quale «Dio» viene in un certo senso paragonato al «nulla» poiché è impossibile darne una definizione positiva, ma di Esso si può solo dire «ciò che non è».
La «negazione del vuoto» continuò anche in epoca moderna sebbene la riscoperta del neoepicureismo – si pensi a Gassendi che entrò in polemica con Cartesio – fece riproporre nuovamente la possibilità dell’esistenza del vuoto. R. Cartesio negherà l’esistenza del vuoto affermando che anche l’aria è formata da minuscoli corpuscoli (etere) in continuo movimento. G.W. Leibniz propose la cosiddetta «legge della continuità», per la quale per passare dal piccolo al grande bisogna passare attraverso infiniti gradi intermedi: «l’impiego di questa legge è molto importante nella fisica. Essa importa che dal piccolo al grande e dal grande al piccolo si passa sempre attraverso un termine medio, così nei gradi come nelle parti» [Nuovi Saggi sull’intelletto umano, Prefazione]. Non esistono quindi atomi, cioè parti indivisibili, né tanto meno esiste il «vuoto»: « infine, è vuoto uno spazio in cui non si dia nulla di sensibile, per quanto sia pieno di materia creata e sussistente per sé, giacché di solito non consideriamo che quelle cose che i sensi possono avvertire» [Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione, II, XVII]. Allo stesso tempo E. Torricelli mostrò sperimentalmente che «l’aria avesse un peso» e una propria pressione atmosferica, sostituendo così il concetto di «horror vacui» tipica delle teorie meccanicistiche del Seicento. I fenomeni pneumatici venivano spiegati «tramite l’idea di una impossibilità del vuoto in natura, una tendenza della natura a ostacolare qualsiasi tentativo di creare il vuoto, tendenza suggeriva a sua volta spiegazioni antropomorfe che attribuivano alla natura un “orrore del vuoto”» [R. Maiocchi, Storia del scienza in Occidente. Dalle origini alla bomba atomica., p. 304, Firenze, 2000].
Dal XIX sec. il «nulla» ricomincia ad assumere nuovamente un’importanza di tipo logico-linguistico. G.W. Hegel, nella Scienza della logica (1812), fa coincidere «l’essere» col «nulla» a causa della loro assoluta «indeterminatezza»: «Essere, puro essere, – senza nessun’altra determinazione […] Nulla, il puro nulla. È semplice somiglianza con sé, completa vuotezza, assenza di determinazione e di contenuto […] Il puro essere e il puro nulla sono dunque lo stesso.» [trad. it., pp. 70-71, Bari-Roma, 1996]. Nella «logica booleana» si ammettono solo due valori: 0 e 1, vuoto e pieno, che sarà fondamentalmente per lo sviluppo dell’elettronica e del sistema binario. Nella filosofia tedesca il «vuoto» viene a coincidere col «nulla» in senso metaforico all’interno del nichilismo che predica la caduta di tutti i valori privi di fondamento ultimo o metafisico – si pensi a A. Schopenhauer e F. Nietzsche: il nulla è appunto il vuoto lasciato dal senso, dal fine, dai valori.
Nel Novecento, tuttavia, si è assistito alla definitiva separazione tra nulla e vuoto. Il logico Carnap, in una nota polemica rivolta alla filosofia di Heidegger, critica i presunti filosofi che utilizzano in modo scorretto dal punto di vista logico e linguistico certi termini, i quali a causa della loro ambiguità posso apparire «magici o mistici». È il caso della parola «nulla», la quale presa in generale non indica nulla in quanto non è un sostantivo vero e proprio, bensì un quantificatore e può essere usato solo relativamente ad un’unità positiva e precisa [Il superamento della metafisica attraverso l’analisi logica del linguaggio, 1932]. Compito della logica è dunque quello di spogliare dei caratteri mistici il linguaggio, come scriverà Wittgenstein. Lo stesso Wittgenstein darà una visione più dinamica del linguaggio, nella quale le parole non hanno un significato in sé così come le «singole» proposizione, ma il loro senso si determina all’interno del «gioco linguistico» le cui condizioni sono anteposte dall’attività del parlante [Blu Book, 1933-34].
Il «vuoto in sé», «assoluto», cioè «spaziale», è diventato così sempre più una questione fisica tornata in auge a causa della teoria quantistica. Il «nulla» pertanto, a mio modesto avviso, si circoscrive alla filosofia, mentre il «vuoto» alla fisica.