Vorrei sapere come si può dire che la fisica di Einstein abbia confutato Kant, quando Kant parlava di come la nostra mente (umana) interpreta la realtà e non di come essa sia. Mi preme soprattutto osservare come la nostra percezione della realtà potrebbe essere diversa dal modello matematico tramite il quale la scienza la descrive.

Le differenze tra Kant ed Einstein, riguardo il loro concetto di «tempo», si devono soprattutto ai diversi contesti storici ed epistemologici in cui questi due pensatori si muovono: il primo, nonostante si sforzi di sostenere che il tempo come lo spazio siano forme della sensibilità, si muove ancora nel contesto della fisica meccanicistica (perlomeno il significato di «spazio e tempo» appartengono ancora alla fisica newtoniana), il secondo, invece, già è ben cosciente che la fisica classica non può essere estesa a tutti gli eventi fisici poiché alcuni di questi risultano incomprensibili (si pensi alla fisica quantistica) se tradotti nel linguaggio della fisica classica.


 Ma cos’è esattamente per Kant il «tempo»? Nella Critica della ragion pura (1781), Kant lo definisce nel seguente modo: «Il tempo non è affatto un concetto empirico, che sia stato tratto da qualche esperienza. In effetti, la simultaneità o la successione non si presenterebbero neppure alla percezione, se come fondamento non si trovasse a priori la rappresentazione del tempo. Soltanto sotto questo presupposto, ci si può rappresentare, che un qualcosa sussista in un solo e medesimo tempo (simultaneamente) oppure in temi diversi (successivamente). Il tempo è una rappresentazione necessaria che sta a fondamento di tutte le intuizioni. […] Il tempo è dunque dato a priori. Soltanto in esso è possibile una qualsiasi realtà delle apparenze. […] Il tempo non è affatto un concetto discorsivo, o, come si dice, generale, bensì una forma pura dell’intuizione sensibile. […] Il tempo non è qualcosa, che sussista per se stesso, o inerisca alle cose come determinazione oggettiva, e quindi rimanga, quando si estrae da tutte le condizioni soggettive dell’intuizione di tali cose. […] Il tempo è null’altro se non la forma del senso interno dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno. […] Il tempo determina il rapporto alle rappresentazioni del nostro stato interno. […] Il tempo è quindi unicamente una condizione soggettiva della nostra (umana) intuizione (la quale è sempre sensibile, in quanto cioè noi siamo modificati da oggetti), e in sé, fuori del soggetto è nulla» [trad. it., pp. 86-90, 1995].


Per Kant quindi il tempo è la «condizione necessaria e a priori» delle rappresentazioni interiori. È «necessaria» in quanto è presupposto all’organizzazione interiori, è «a priori» perché l’organizzazione delle rappresentazioni non può provenire dalle rappresentazioni stesse, cioè dall’esperienza sensibile, ma da qualcosa che ne è indipendente e che l’anticipa. Ma sicuramente ciò che più ci interessa è il fatto che Kant definisca il «tempo» come un «senso interiore» mediante il quale organizziamo il «nostro stato interno».


È importante questo punto poiché Einstein non nega questa qualità del tempo. Nel saggio Fisica e realtà (1936), Einstein scrive: «Un’importante proprietà delle nostre esperienze sensoriali e, più in generale, di tutta la nostra esperienza, è il loro ordinamento temporale. Questo tipo di ordine conduce alla concezione mentale di un tempo soggettivo, schema ordinativo della nostra esperienza. Il tempo soggetto conduce poi, attraverso il concetto di oggetto materiale e di spazio, al concetto di tempo oggettivo» [il saggio si trova in A.Einstein, Pensieri, idee, opinioni., pp. 56-86, Roma, 1996]. Per Einstein esiste dunque un senso interiore che organizza le «esperienze sensoriali» e che è il presupposto del «tempo soggettivo». Ciò che egli critica energicamente è invece il fatto che il «tempo» e lo «spazio», come sono intesi dalla fisica classica, possano essere estesi a tutta la fisica e, soprattutto, possano rappresentare qualcosa di «definitivo» in tutta la conoscenza fisica. 


 Ora Kant impiega, per la formulazione dei concetti di «spazio e tempo», le definizioni della fisica classica, sebbene egli sostenga che tutte le «asserzioni generali» sul «tempo» e sullo «spazio» derivano dalle loro forme a priori. Il problema è che queste definizioni risultano non essere valide per alcuni campi della fisica, in quanto si rifanno apertamente – volente o nolente – alla matematica classica e alla geometrica euclidea, le quali non sembrano essere appropriate per lo studio dei nuovi eventi fisici. Per Einstein questa concezione ha dimenticato che in realtà la «geometria euclidea» è solamente una costruzione teorica, sebbene sia efficiente e chiara: «La rappresentazione puramente logica (assiomatica) della geometria euclidea ha, è vero, il vantaggio di una maggiore semplicità e chiarezza, ma lo sconta con la rinuncia alla rappresentazione del nesso tra la costruzione concettuale e l’esperienza sensoriale, nesso sul quale soltanto poggia  il significato della significato della geometria per la fisica. L’errore fatale che la necessità del pensiero, precedente tutta l’esperienza, fosse alla base della geometria euclidea e del concetto di spazio ad essa pertinente sorse dal fatto che la base empirica su cui poggia la costruzione assiomatica della geometria euclidea era caduta in oblio». [ibid., p. 63]


Einstein criticherà della fisica classica soprattutto la sua tendenza di dare una «teoria unitaria» nella fisica e, in ugual misura, anche il fatto che da «principi fondamentali ed assiomatici» si possa raggiungere una conoscenza complessiva e totalizzante della realtà fisica: «La meccanica classica è soltanto uno schema generale; essa diventa una teoria soltanto per esplicita indicazione delle leggi di forza […] Dal punto di vista dell’obiettivo della massima semplicità logica dei fondamenti, questo metodo teorico è lacunoso in quanto non si possono ricavare le leggi di forza da considerazioni logiche e formali, così che la loro scelta è a priori ampiamente arbitraria» [ibid., p. 65]. Egli sostiene che di fronte a fatti comprensibili si debbano creare delle «regole di per sé arbitrarie» ma che spiegano come tali fenomeni si possano verificare. Il valore di verità di una «legge» non sta, pertanto, nella sua massima inerenza ad un sistema logico-formale, bensì nel suo «successo», nel suo riscontro nella verifica stessa e nella prassi scientifica.


Allora qual è l’idea nuova di «fisica» che emerge in Einstein e che non è ancora presente in Kant? In Kant la fisica è ancora un sistema statico, sulla base del meccanicismo, sebbene lui stesso critichi le “pretese” conoscitive della scienza (il suo valore di «conoscenza assoluta»). In Einstein, al contrario, la fisica appare come un sistema dinamico: «La fisica costruisce un sistema logico di pensiero che si trova in uno stato di evoluzione, e la cui base non si può ottenere per distillazione dalle esperienze vissute con alcun metodo induttivo, ma conseguire solo per libera ideazione. La giustificazione (contenuto di verità) del sistema poggia sulla base delle esperienze di senso, dove i rapporti tra queste ultime e i primi si possono comprendere solo intuitivamente» [ibid., p. 85].


Occorre dire che è stato Kant stesso a porre l’accento sul fatto che «la conoscenza scientifica» non è una conoscenza assoluta, bensì una conoscenza che si fonda su «schemi» nei quali i fenomeni assumono un proprio senso. Ma se per Kant questi schemi erano fissi ed immutabili (erano cioè, a priori o trascendentali), sebbene ricondotti esclusivamente alla ragione umana, per Einstein sono invece sempre più dinamici ed anzi non escludono neanche l’intuizione o l’ideazione. L’importanza di Kant è da ritrovare, quindi, non solo nella sua cosiddetta «rivoluzione copernicana», ma anche nel fatto che «la percezione del fenomeno» non si dà mai in modo «puro», ma sempre all’interno di «schemi concettuali» – con evidenti conseguenze nella Gestalpsycologie, nell’espistemologia contemporanea e nelle scienze cognitive. Ad essere discussa poi, successivamente, sarà la «natura» di questi schemi concettuali.