Cosa significa “operatori su spazi di Hilbert”?

Nel contesto dell’analisi funzionale un operatore su uno spazio di Hilbert è un’applicazione lineare L : H → H dove H è uno spazio di Hilbert, reale o complesso. Ci sono quindi un po’ di ingredienti sui quali soffermarsi per chiarire la situazione.

Sia V uno spazio vettoriale reale. Un prodotto scalare su V è un’applicazione p : V x V → R tale che:

a) p(au+bv,w)=ap(u,w)+bp(v,w) per ogni a,b ∈ R e per ogni u,v,w ∈ V; 

b) p(u,av+bw)=ap(u,v)+bp(u,w) per ogni a,b ∈ R e per ogni u,v,w ∈ V;

c) p(u,v)=p(v,u) per ogni u,v ∈ V;

d) p(u,u) ≥ 0 per ogni u ∈ V e p(u,u)=0 se e solo se u=0.

Lo stesso discorso, con qualche variante, funziona anche nel caso complesso: se V è uno spazio vettoriale complesso allora un prodotto scalare su V è un’applicazione p : V x V → C tale che:

a) p(au+bv,w)=ap(u,w)+bp(v,w) per ogni a,b ∈ C e per ogni u,v,w ∈ V; 

b) p(u,av+bw)=acp(u,v)+bcp(u,w) per ogni a,b ∈ C e per ogni u,v,w ∈ V, essendo xc il coniugato di x;

c) p(u,v)=(p(v,u))c per ogni u,v ∈ V;

d) p(u,u) ≥ 0 per ogni u ∈ V e p(u,u)=0 se e solo se u=0.

Se V è uno spazio vettoriale, reale o complesso, un prodotto scalare su V determina sempre una norma canonica definita dalla relazione ||u||2:=p(u,u), la quale a sua volta induce una distanza canonica d(u,v) := ||u-v||. Finalmente, H è uno spazio di Hilbert reale (complesso) se H è uno spazio vettoriale reale (rispettivamente complesso) dotato di un prodotto scalare e completo rispetto alla metrica canonica d, ovvero tale per cui ogni successione di Cauchy rispetto alla distanza d ammette limite in H. L’esempio standard di spazio di Hilbert reale è rappresentato da Rn dotato del prodotto scalare canonico

p(u,v):=u1v1+…unvn.

Lo spazio vettoriale complesso Cn è invece un esempio di spazio di Hilbert complesso rispetto al prodotto scalare canonico

p(u,v):=u1v1c+…+unvnc.

La fecondità della nozione di spazio di Hilbert risiede proprio nell’esistenza del prodotto scalare: grazie a questo infatti molti teoremi classici veri in dimensione finita, cioé per Rn o per Cn, restano validi, come ad esempio i teoremi di proiezione ortogonale o, in un certo senso, il teorema di Pitagora. La teoria degli spazi di Hilbert diventa di conseguenza più interessante quando viene applicata a spazi vettoriali di dimensione infinita: l’esempio principe è costituito dallo spazio di Hilbert L2(Ω;R), spazio vettoriale reale delle funzioni u : Ω → R di quadrato sommabile, con Ω aperto in Rn, ovvero tali per cui 

|u(x)|2dx è finito,

e dotato del prodotto scalare

p(u,v):=∫u(x)v(x)dx.

La versione complessa è lo spazio di Hilbert L2(Ω;C), spazio vettoriale reale delle funzioni u : Ω → C di quadrato sommabile, ovvero tali per cui 

|u(x)|2dx è finito,

e dotato del prodotto scalare

p(u,v):=∫u(x)vc(x)dx.

Dal punto di vista storico L2(Ω;C) rappresenta lo spazio di Hilbert: il matematico tedesco lo introdusse prima che il quadro generale funzionale moderno appena descritto diventasse standard.

Infine, L è quindi un operatore su uno spazio di Hilbert, reale o complesso, se H è di Hilbert e L  : H → H è lineare, ovvero

L(au+bv)=aL(u)+bL(v) per ogni a,b reali (complessi) e u,v ∈ H.

Le applicazioni concrete più importanti della teoria degli spazi di Hilbert stanno nella meccanica quantistica: la celebre funzione d’onda di Schroedinger, ad esempio, è un elemento di L2(Ω;C) e il suo modulo quadro fisicamente rappresenta una densità di probabilità; ancora, un operatore L su uno spazio di Hilbert H è un cosiddetto osservabile, gli elementi di H si chiamano stati del sistema e i soli valori che l’osservabile può assumere sono gli scalari c tali per cui esiste uno stato v, detto anche autostato, per il quale si ha L(v)=cv (dal punto di vista matematico c si chiama anche autovalore di L, mentre v si dice autovettore di L).