Vorrei sapere la storia della tecnica molecolare ibridazione in situ

L’ibridazione in situ (ISH) è una tecnica sviluppata a partire dalla fine degli anni Sessanta che permette di determinare e quantificare la presenza di specifiche sequenze di DNA o RNA all’interno di un dato campione.

 Il concetto sul quale si basa la tecnica è il seguente: conoscendo la sequenza di DNA o RNA d’interesse, si può verificare la presenza di tali sequenze in un dato campione costruendo delle “sonde”, cioè delle sequenze polinucleotidiche complementari a singolo filamento, che si possano appaiare (“ibridare”) alle regioni corrispondenti. Ovviamente queste sequenze devono essere sufficientemente lunghe da escludere appaiamenti fittizi e l’avvenuto appaiamento deve essere facilmente riconoscibile. Il primo metodo efficace di ibridazione in situSouthern blot): fu messo a punto da Southern nel 1975, da cui l’omonima tecnica. 

  1. il DNA, dopo essere stato separato in base alla massa molecolare tramite gel-elettroforesi, è trasferito su filtro di nitrocellulosa;
  2. viene poi aggiunta in eccesso la sonda, che in questo metodo di dosaggio è marcata radioattivamente al livello del P dei nucleotidi (32P), in condizioni tali che sia in singola elica e possa appaiarsi al campione;
  3. viene infine effettuato un lavaggio, in modo da eliminare la sonda che non si è legata e, tramite metodi di misura della radioattività (scintillazione, autoradiografia), si può valutare l’eventuale presenza del DNA d’interesse e, a seconda dell’intensità del segnale, la quantità di DNA presente nel campione. La stessa tecnica venne successivamente modificata, utilizzando sonde a RNA, per poterla applicare anche all’RNA, e prese il nome di Northern blot.

 Poichè lavorare con materiale radioattivo comporta notevoli costi, relativi sia allo smaltimento dei rifiuti e che alla sicurezza dei lavoratori, sono state sviluppate negli anni Ottanta delle tecniche che risolvessero il problema. Un primo tipo di tecniche è definito sistemi di misura indiretta non radioattiva: i nucleotidi della sonda vengono modificati con una molecola utilizzata per accoppiare l’avvenuta ibridazione con una reazione enzimatica, fotochimica o di sintesi chimica facilmente rilevabile. Le molecole più utilizzate sono biotina, dinitrofenolo, bromodeossiuridina, digossigenina o DIG, ma in generale come caratteristiche non devono essere presenti con gli acidi nucleici o reagire con essi. Ad esempio, nel caso della biotina, i nucleotidi usati per le sonde sono collegati alla biotina da ponti di 4-14 atomi di carbonio, senza che creino ingombro sterico. Dopo l’ibridazione e il trasferimento su membrana, il campione biotinilato è rilevato mediante l’utilizzo di streptavidina, una proteina ad altissima affinità per la biotina, coniugata con un enzima, capace d’idrolizzare un substrato cromogenico, fluorogenico o chemiluminescente. Molto spesso a tal scopo come enzima è usata la fosfatasi alcalina, che è capace d’idrolizzare il p-nitrofenilfosfato a paranitrofenolo, che è un composto cromogeno la cui formazione può essere seguita spettrofotometricamente nel tempo; poiché l’ibridazione non è rilevata direttamente dal DNA, ma grazie ad un sistema collegato ad esso, vale a dire l’enzima e la molecola segnale, si parla appunto di metodi indiretti. Per quanto riguarda i composti fluorofori, invece, è utilizzato, sempre accoppiato alla fosfatasi alcalina, l’HNPP, che dopo la defosforilazione genera un precipitato fluorescente, che si eccita a 290 nm ed emette a 509 nm; questo tipo di saggio è più sensibile di quelli colorimetrici. Quando è utilizzata una sostanza fluorescente, l’ISH viene chiamata FISH. Infine, a proposito dei dosaggi chemiluminescenti, è spesso usato l’enzima perossidasi di rafano (HRP) accoppiato al luminol (5-ammino-2,3-diidro-1,4-ftalazindione): se ossidato in presenza di perossido, il luminol dà origine ad una molecola che emette luce a 425 nm durante la sua decomposizione allo stato fondamentale. In tutti questi casi è necessario comunque un sistema di quantificazione dell’intensità del segnale, in genere fornito dalle case produttrici dei kit.

Infine, esistono anche altri metodi, detti diretti, nei quali gli acidi nucleici sono marcati direttamente con molecole fluorescenti, come la fluoresceina o rodamina, oppure con enzimi (fosfatasi, perossidasi); anche in questo caso, la presenza di questi addotti legati covalentemente può essere quantificata mediante le tecniche precedentemente elencate.

 

Fonti:

“Molecular cloning: a laboratory manual”, Sambrock and Russell, CSHL Press

 

Risposte precedenti in Vialattea:

http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta.php?num=10733 per le tecniche di biologia molecolare;
http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta.php?num=6355 per quanto riguarda la FISH.