Tempo orsono diversi chimici e fisici affermarono l’eccezionale scoperta della memoria dell’acqua, principio che sta alla base della omeopatia e scienze affini. Cosa ne sono state di quelle ricerche? Esiste veramente una memoria dell’acqua?

Mi
permetto di rispondere alla domanda del lettore riportando per esteso
un paragrafo del mio libro Realtà o illusione? Scienza, pseudoscienza
e paranormale
(Edizioni Dedalo, Bari 1999), intitolato appunto “L’acqua
con la memoria”:

 

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L’acqua
con la memoria

Il
30 giugno 1988, sulla prestigiosa rivista scientifica britannica Nature,
comparve un articolo dal titolo “Human basophil degranulation triggered
by very dilute antiserum against IgE”.

L’articolo
portava la firma di ben 13 autori (6 francesi, 3 israeliani, 2 canadesi
e 2 italiani). Coordinatore del gruppo di ricerca era il biologo francese
Jacques Benveniste, direttore dell’Unité 200 dell’Institut National
de la Santé e de la Recherche Médicale (INSERM) di Parigi.

L’articolo
riportava i risultati di uno studio effettuato su una particolare reazione
biologica chiamata “degranulazione dei basofili”. I basofili
sono un particolare tipo di globuli bianchi, presenti in piccola percentuale
nel sangue, che svolgono un ruolo importante nello sviluppo delle allergie.
Quando i basofili vengono a contatto con anticorpi (prodotti dalla presenza
di un allergene) essi liberano dai loro granuli intercellulari (da cui
il nome di degranulazione) determinati mediatori chimici (la principale
è l’istamina) responsabili delle manifestazioni allergiche.

L’articolo
di Nature riportava i risultati di esperimenti in cui i basofili
venivano posti a contatto con soluzioni, di diversa concentrazione, di
particolari anticorpi (detti anti IgE, avvero anti immunoglobuline E).

Il
risultato clamoroso riportato nell’articolo era il seguente: la reazione
di degranulazione continuava a verificarsi anche quando la soluzione di
anticorpi
veniva
fortemente diluita, fino a raggiungere una concentrazione di 10-120
M (si legge dieci alla meno centoventesima molare).

Chi
non ha dimestichezza con la chimica e la fisica non può rendersi
conto del significato di un simile valore di concentrazione. Una breve
spiegazione dovrebbe chiarire un po’ le cose.

In
campo chimico la concentrazione di una soluzione viene spesso espressa
in “molarità”. Essa rappresenta il numero di moli di
sostanza disciolta contenute in un litro di soluzione. La mole è
una unità di misura chimica che corrisponde a un numero fisso di
molecole, detto numero di Avogadro. Tale numero vale 6.02 · 1023
(il numero 1023 corrisponde a 1 seguito da 23 zeri, ovvero
centomila miliardi di miliardi!). Potremo pertanto scrivere:

1
mole = 6.02 · 1023 molecole

In base a
tale relazione, possiamo calcolare quante molecole di anticorpo sono contenute
in un litro di soluzione di concentrazione 10-120 M. Avremo:

10-120
· 6.02 · 1023 = 6.02 · 10-97 molecole/litro

Questo
numero è enormemente più piccolo di uno. Le molecole sono
entità non frazionabili: se si frazionassero le molecole si distruggerebbe
la sostanza. Di conseguenza una concentrazione pari a 6.02 · 10-97
molecole/litro implica che, per trovare una sola molecola di anticorpo,
occorrerebbe considerare un volume d’acqua pari a:

1/(6.02
· 10-97 ) = 1.66 · 1096 litri

Per
rendersi conto dell’enormità di tale valore, basti pensare che
il volume d’acqua di tutti gli oceani è stimato nell’ordine di
1020 litri!.

Questi
brevi calcoli portano a concludere che una soluzione di anticorpi di concentrazione
10-120 M non è affatto una soluzione, ma semplicemente
acqua pura.

Jacques
Benveniste e i suoi collaboratori non erano evidentemente digiuni in fatto
di chimica. Di conseguenza si erano perfettamente resi conto che nella
“soluzione” di concentrazione pari a 10-120 M, anticorpi
non ce n’erano affatto.

Per
spiegare il persistere della reazione di degranulazione da loro osservata
a tali diluizioni, azzardarono allora un’ipotesi rivoluzionaria. Secondo
la loro ipotesi la presenza degli anticorpi nella soluzione produrrebbe
delle modificazioni nella struttura dell’acqua. Tali modificazioni strutturali
permarrebbero nell’acqua anche quando, in seguito a ripetute diluizioni,
ogni traccia di anticorpo venisse eliminata. In altre parole l’acqua manterrebbe
una “memoria” delle sostanze che sono state preventivamente
disciolte in essa, anche in seguito alla eliminazione di queste ultime
per successive diluizioni. Tale ipotesi, se confermata, avrebbe rivoluzionato
le conoscenze fisiche e chimiche.

Il
contenuto dell’articolo di Benveniste e del suo gruppo era talmente clamoroso
che la rivista Nature, prima di pubblicarlo, lo sottopose all’esame
di numerosi “referees” (l’articolo arrivò a Nature
il 24 agosto 1987 e venne accettato solo in data 13 giugno 1988). Alla
fine accettò di pubblicarlo. Per non venir meno al proprio prestigio
e serietà, tuttavia, Nature fece precedere l’articolo da
un’introduzione dal titolo significativo “Quando credere all’incredibile”
e aggiunse in coda all’articolo la seguente “riserva editoriale”,
che vale la pena riportare interamente:

I
lettori di questo articolo devono essere informati della incredulità
dei molti referees che hanno commentato le diverse versioni di esso, durante
gli ultimi sette mesi. L’essenza del risultato è che una soluzione
acquosa di un anticorpo mantiene la sua capacità di evocare una
risposta biologica anche quando viene diluita a tal punto che vi sia una
trascurabile probabilità di trovare una singola molecola in qualche
campione. Non c’è nessuna base fisica per una tale attività.
Con la gentile collaborazione del Prof. Benveniste, Nature ha pertanto
predisposto indagini indipendenti per osservare la ripetibilità
degli esperimenti. Un rapporto di tale indagine verrà pubblicato
prossimamente.

Nonostante
le riserve con cui Nature aveva pubblicato l’articolo, la notizia
dell’”acqua con la memoria” si diffuse a macchia d’olio, superò
ben presto il ristretto ambito scientifico e raggiunse il grosso pubblico.

Pochi
giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, verso i primi di luglio dell’88,
sui quotidiani di tutto il mondo apparvero articoli sull’acqua con la
memoria. Anche i quotidiani italiani non mancarono all’appello. Vennero
addirittura pubblicate interviste a vari ricercatori che proponevano complesse
teorie per interpretare il meccanismo secondo il quale l’acqua manterrebbe
la sua memoria. Non mancarono, tuttavia, anche articoli critici di esponenti
del mondo scientifico che esprimevano perplessità.

Un
tale clamore al di fuori degli ambienti scientifici e il massiccio coinvolgimento
dei mass-media doveva avere una causa. Come mai una notizia che apparentemente
avrebbe dovuto interessare il ristretto gruppo dei ricercatori chimico-fisici
fu così pubblicizzata presso il grosso pubblico?

La
risposta è semplice. Se i risultati delle ricerche di Benveniste
e del suo gruppo si fossero rivelati veri, essi avrebbero costituito la
base teorica di una terapia alternativa alla medicina ufficiale, guardata
con perplessità da quest’ultima, ma estremamente diffusa e di moda
presso il grosso pubblico: l’omeopatia.

L’omeopatia
venne introdotta verso il 1790 dal medico tedesco Christian Samuel Hahneman
(1755-1843). Rifacendosi alle dottrine di Ippocrate (IV sec. a.C.) e di
Paracelso (1493-1541), Hahneman ripropose il principio secondo il quale
è possibile curare una malattia somministrando un estratto diluito
della sostanza che è causa della malattia stessa: similia similibus
curantur
, ovvero il simile cura il simile (omeopatia deriva
da homeo=simile e da pathos=malattia).

Questo
principio non è mai stato dimostrato ma, a parte questo, ciò
che lascia maggiormente perplessi nei confronti dell’omeopatia sono le
diluizioni estreme con cui vengono preparati i farmaci omeopatici. Partendo
da un certo principio attivo (generalmente di origine vegetale), lo si
diluisce progressivamente di un fattore 10 (DH1) o 100 (CH1). Ogni diluizione
è seguita da una accurata agitazione del prodotto. Nella omeopatia
è comune raggiungere diluizioni con fattori DH30 (10-30)
e CH30 (10-60).

Le
obiezioni sono le stesse viste precedentemente a proposito delle soluzioni
di anticorpi di Benveniste. Un farmaco omeopatico con fattore di diluizione
CH30 (10-60) non contiene più alcun principio attivo,
ma solamente acqua…fresca.

Dicevamo
che l’omeopatia è di moda e il mercato dei farmaci omeopatici è
fiorente. Da anni gli omeopati si battono affinché la loro disciplina
venga riconosciuta dalla medicina ufficiale. Si capisce pertanto come
mai l’articolo di Benveniste suscitò tanto clamore anche al di
fuori dell’ambiente scientifico. Se l’acqua avesse effettivamente una
memoria, le obiezioni nei confronti dell’omeopatia sarebbero confutate
e tale disciplina avrebbe finalmente il tanto agognato riconoscimento
scientifico.

Senza
lasciarsi influenzare dal clamore suscitato, la redazione di Nature
nominò una commissione di indagine che, come preannunciato, avrebbe
dovuto verificare la riproducibilità degli esperimenti di Benveniste
e collaboratori.

La
commissione era composta da tre persone: John Maddox, direttore di Nature,
Walter W. Steward, ricercatore dell’Istituto Americano della Sanità
ed esperto in frodi scientifiche e James Randi. Quest’ultimo è
un personaggio singolare. Illusionista di professione è divenuto
celebre in tutto il mondo per le sue indagini nel campo del presunto paranormale
(ha, ad esempio, smascherato il famoso paragnosta israeliano Uri Geller,
come vedremo nel capitolo 10). Specializzatosi nello scoprire trucchi
e inganni, i suoi meriti sono stati ampiamente riconosciuti dal mondo
scientifico.

La
commissione di Nature trascorse una settimana presso il laboratorio
del Prof. Benveniste, a Parigi, immediatamente dopo la pubblicazione dell’articolo
(il soggiorno iniziò il 4 luglio). Il resoconto del lavoro svolto
e le conclusioni tratte vennero pubblicate dalla stessa Nature
in data 28 luglio 1988 in un rapporto dal titolo significativo: “High-dilution
experiments: a delusion”.

La
lettura del rapporto è piuttosto interessante e divertente. Innanzi
tutto i membri della commissione vennero a conoscenza del fatto che due
dei collaboratori di Benveniste erano stipendiati grazie a un contratto
stipulato tra l’Institut National de la Santé e de le Recherche
Médicale e la casa farmaceutica Boiron et C., specializzata in
prodotti omeopatici. Era una scoperta sospetta, ma di per sé non
determinante.

La
commissione esaminò accuratamente gli appunti di laboratorio (messi
a disposizione senza alcuna difficoltà da Benveniste) e cercò
di ripetere gli esperimenti più significativi con procedure “a
doppio cieco”. I risultati di Benveniste non furono riprodotti. La
commissione scoprì che negli esperimenti di Benveniste e collaboratori
venivano considerati significativi soltanto quei risultati che confermavano
le aspettative, mentre erano stati eliminati tutti quei risultati in disaccordo
con esse. Tenendo conto di tutti i risultati (positivi e negativi) si
otteneva un andamento in perfetto accordo con le previsioni statistiche.
Di conseguenza non esisteva nessuna evidenza che dimostrasse la presunta
memoria dell’acqua.

In
coda al rapporto della commissione di indagine, Nature, nel numero
del 28 luglio 1988, pubblicò la replica di Jacques Benveniste.
In questa replica, Benveniste, fortemente irritato, accusò la commissione
di dilettantismo. Criticò soprattutto la presenza di James Randi
(specialista nello smascherare trucchi fraudolenti), che venne da Benveniste
interpretata come una messa in discussione della propria onestà
e correttezza deontologica. Egli usò parole grosse, paragonando
l’inchiesta cui era stato sottoposto alla persecuzione delle streghe di
Salem e al macarthysmo. Egli concluse la replica affermando:

Forse
ci siamo sbagliati tutti in buona fede. Questo non è un crimine,
ma scienza.

E
rimandava la questione a ulteriori giudizi futuri.

Da
tutta questa storia appare quasi con certezza che la buona fede di Benveniste
fosse autentica. Egli può essere soltanto accusato di leggerezza,
superficialità e ingenuità nell’accettare per buoni i risultati
dei suoi collaboratori. Ma soprattutto Benveniste può essere accusato
di non aver applicato la regola fondamentale, già ricordata, secondo
la quale “affermazioni straordinarie richiedono prove altrettanto
straordinarie”. Non si possono fare con leggerezza affermazioni che
sconvolgono l’intero scibile umano, senza preoccuparsi di trovare dati
ed evidenze che confermino, al di là di ogni dubbio, tali affermazioni.

Con
il suo consueto linguaggio colorito, James Randi, in fondo al rapporto
della commissione, riportò il seguente esempio:

Se
io affermo di avere una capra nel mio giardino, molti di voi non avrebbero
difficoltà a credermi e potrebbero accontentarsi della testimonianza
di un vicino. Ma se affermassi di avere un “unicorno” nel giardino,
quanti si accontenterebbero di una semplice testimonianza di un vicino?

Abbiamo
visto l’enorme clamore suscitato dai mass-media in occasione della pubblicazione
dell’articolo di Benveniste. Ci si sarebbe aspettati un corrispondente
clamore in seguito alla smentita delle sue affermazioni. Le cose purtroppo
non andarono così. Andando a ricercare sugli stessi quotidiani
che avevano pubblicizzato con grande enfasi la notizia originaria, nei
giorni seguenti la pubblicazione del rapporto della commissione di Nature,
chi scrive ha potuto trovare un solo breve articolo a due colonne (a firma
di Francesco Barone) che riportava il resoconto dell’inchiesta. Addirittura
in data 3 agosto 1988 (il rapporto della commissione è del 28 luglio)
il supplemento TuttoScienze della Stampa pubblicava un articolo
dal titolo “Acqua: la memoria chimica non è l’unica stranezza”
(di Federico Bedarida) in cui la memoria dell’acqua veniva considerata
con prudenza, ma senza tanta meraviglia, viste le numerose anomalie chimico-fisiche
di questa sostanza così comune (solo una piccola nota del redattore
informava che Nature aveva pubblicato un rapporto che confutava
la tesi di Benveniste).

Questo
comportamento dei mass-media è purtroppo abbastanza frequente:
le notizie sensazionalistiche trovano spazi smisurati mentre le successive
smentite vengono quasi ignorate o trovano, al più, spazi minimi.
Questo accade in tutti i settori, ma in campo scientifico è un
atteggiamento estremamente pericoloso e diseducativo. Visto che la maggior
parte delle persone riceve le proprie informazioni scientifiche dai mass-media
e non dalle fonti originali, è auspicabile che questi ultimi adottino
una maggiore prudenza, serietà e competenza.