Diamo prima una risposta simile a quella che troveresti in una buona enciclopedia; fatto questo cerchiamo di contestualizzarla e di mettere in evidenza la sua importanza.
Arthur Compton (da cui il nome dell’effetto) fece quest’esperimento: inviò radiazioni elettromagnetiche ad alta energia (raggi X come quelli che si usano per fare le radiografie) contro un bersaglio di elettroni che si possono considerare quasi liberi.
Qui faccio una digressione su cosa significa quasi liberi: gli elettroni di un metallo sono debolmente legati allo stesso, almeno quelli di conduzione; se si invia un fascio di radiazioni che hanno molta più energia di quella richiesta per estrarre un elettrone dall’atomo (ionizzazione) gli elettroni possono essere considerati liberi; viceversa se si usasse una radiazione troppo poco energetica allora gli elettroni resterebbero legati al metallo; da qui il significato del “quasi”.
I risultati di quell’esperimento dimostrarono che, per quanto concerne i fenomeni di urto, la luce si comporta come una particella di energia E=hν e quantità di moto p=hν/c dove h è la costante di Planck, ν è la frequenza della radiazione incidente e c è la velocità della luce dando quindi una “patente” di particella alla luce (almeno in questo tipo di fenomeni).
Ora ci si chiede come si è arrivati a questo risultato. Una risposta completa e accurata dal punto di vista storico va oltre le mie competenze ma senz’altro posso dire a parole un modo per ottenere la formula che esprime il legame fra l’energia del fotone (particella di luce) diffuso e l’angolo di deviazione dello stesso. La (celebre) formula dell’effetto Compton è la seguente:
λ2 – λ1 = [h/mc](1-cos θ)
dove λ1è la lunghezza d’onda del fotone incidente (data dalla relazione λ1ν=c), λ2è la lunghezza d’onda del fotone diffuso, m è la massa dell’elettrone, θ è l’angolo di deviazione fra la direzione del fotone incidente e la direzione del fotone diffuso infine h e c sono le costanti viste prima.
A questo risultato si giunge imponendo che in questo processo d’urto si conservi l’energia e la quantità di moto considerando il fotone come una particella di energia E=hν e quantità di moto p=hν/c (nella direzione di propagazione del fascio) e un elettrone di energia mc2 e quantità di moto nulla. Bisogna quindi usare la cinematica relativistica.
È importante sottolineare che non si può dire a priori quale sarà l’angolo di deviazione di un singolo processo di urto ma il meglio che si può dare è determinare la distribuzione statistica dei possibili angoli di deviazione. Resta vero, però, che una volta fissato un angolo di deviazione, magari posizionando un rivelatore in un certo punto, una volta che un fotone è stato deviato di un certo angolo allora resta univocamente determinata la sua nuova lunghezza d’onda e di conseguenza la sua energia e la sua quantità di moto. L’energia persa dal fotone sarà (per la conservazione dell’energia) l’energia cinetica acquistata dall’elettrone.
L’effetto Compton dimostra, senza spiegazioni alternative, che in talune circostanze la luce si comporta come un insieme di particelle dotate di energia e quantità di moto come visto prima. Dà quindi una conferma alla spiegazione data da Einstein al fenomeno dell’effetto fotoelettrico nel 1905 (qui siamo nel 1922) per in quale aveva vinto il Nobel nel 1921.
Ricordo brevemente l’effetto fotoelettrico: un fascio di radiazione investe un metallo e ne causa la ionizzazione, ossia degli elettroni sono sbalzati fuori dal metallo. Dal modo in cui si vede avvenire il fenomeno (avviene istantaneamente e solo per luce superiore ad una certa frequenza che dipende dal materiale bersaglio) si vede che la luce, intesa in modo più generale della piccola parte dello spettro elettromagnetico alla quale i nostri occhi sono sensibili, scambia energia a pacchetti e che la sua energia è proporzionale alla frequenza utilizzata. Einstein in questo modo ricavò una legge (celebre anch’essa) che spiega i risultati sperimentali che sono inspiegabili nell’ambito della fisica classica; allo stesso modo anche l’effetto Compton è inspiegabile classicamente.
Concludo cercando di spiegare che non è tanto il fatto che la luce si comporti come una particella a destare perplessità ma quanto il fatto che esistono altri esperimenti che mostrano in modo incontrovertibile che la luce si comporta come un’onda, altrimenti non si spiegano gli effetti di interferenza e diffrazione (che possono essere visti su scala macroscopica con dei laser).
Quindi la luce è un’onda o una particella? La risposta è tutte e due o nessuna delle due; la luce si comporta come un’onda o come una particella a seconda delle circostanze, ma mantiene la decenza di svelarci in una determinata circostanza o il suo comportamento corpuscolare o il suo comportamento ondulatorio. Per dirla in modo più divertente la luce è onda il lunedì, il mercoledì e il venerdì, è particella il martedì il giovedì e il sabato, ma una volta fatta questa scelta la mantiene.
Mi chiederai cosa faccia la domenica. Diciamo che si riposa.
P.S. Quest’ultimo paragrafo esprime il cosiddetto dualismo onda particella e non vale solo per la luce: in determinate circostanze anche elettroni, protoni, neutroni e tutte le altre particelle si comportano come onde.