Nel particolare
sistema ottico costituito dalla “camera oscura” di una macchina
fotografica l’obiettivo forma un'”immagine reale” della scena
sulla lastra fotografica.
Piu’ in dettaglio, ogni punto della scena emette luce; la parte di essa
che investe l’obiettivo forma un cono di raggi se l’obiettivo e’ circolare
(tutto aperto), una piramide esagonale o ottagonale se il diaframma e’
parzielmente chiuso ed e’ costituito da sei o otto o altro numero di lamelle.
Il vertice del cono sta evidentemente sul punto luminoso della scena,
la base sul piano ottico dell’obiettivo (il piano del diaframma per l’appunto).
L’obiettivo, lente convergente, devia i raggi del cono facendoli uscire
dall’altra parte come un cono/piramide rovesciato rispetto al primo. La
convergenza é calcolata in modo da porre il vertice di questa seconda
piramide proprio sul piano della pellicola. Se questo avviene esattamente
come descritto l’immagine del punto luminoso della scena è, come
deve, un punto sulla pellicola e si dice “a fuoco”.
Se per esempio avviciniamo il punto luminoso all’obiettivo, il potere
convergente diventa insufficiente, il cono/piramide di uscita si allunga
un po’, il suo vertice si sposta oltre la pellicola, l’immagine del punto
luminoso sulla pellicola diventa l’intersezione del piano della pellicola
stessa con il cono/piramide, diventa cioè un cerchietto o un esagono
o ottagono simile al foro del diaframma. L’immagine si dice “fuori
fuoco”.
A riprova di quanto sopra tutte le macchine fotografiche, cineprese,
telecamere hanno la “messa a fuoco” regolabile in base alla
distanza del soggetto. Essa altera il potere convergente dell’obiettivo
in modo da formare un cono di uscita col vertice sulla pellicola per diverse
distanze del soggetto. Se si fa una fotografia in “primo piano”
a un viso, si regola la messa a fuoco su uno/due metri, il viso risulta
a fuoco, lo sfondo, per quando detto sopra “fuori fuoco”
Inoltre, stringendo il diaframma, il cerchietto di errore (di confusione)
diminuisce e risultano quindi “abbastanza a fuoco” anche oggetti
un po’ al di qua e al di là del piano della scena “a fuoco”
aumentando quindi quella che in gergo fotografico viene chiamata “profondità
di campo”. Con questo trucco si riesce a mettere abbastanza a fuoco
il soggetto e lo sfondo sulla stessa immagine.
Per concludere: piccole sorgenti luminose “fuori fuoco” invece
di formare un punto luminoso sulla pellicola lasciano quella che possiamo
chiamare “l’impronta del diaframma” che ne ripete la forma.