Per rispondere meglio alla sua domanda mi aiuterò con un paragone.
Immaginiamo la Natura come un immenso puzzle; dobbiamo ricostruire per esempio la foto della Terra vista dallo spazio. Ora pensiamo che tutti i tassellie che formano l’Africa siano gli animali. Bene, per far sì che salti fuori la nostra immagine dobbiamo incastrare ogni pezzo nel posto giusto. Basta che uno solo sia messo male che, a catena, vengano a mancare tutti gli altri; alla fine non riusciremo a ricomporre l’immagine della Terra nel modo giusto e ci toccherà ricominciare da capo.
Anche se la Natura non è così schematica come questo raffronto, spero di avere reso l’idea; tutti gli animali fanno parte di un grande mosaico: l’ecosistema terrestre.
Ogni animale per vivere dipende da altri animali o organismi, che a loro volta dipendono da altri organismi e così via. È come una catena in cui ogni anello è legato ad un altro. Se per qualche motivo interviene un elemento perturbatore che allenta un anello, la catena può spezzarsi.
Nel nostro caso, l’elemento di disturbo è l’innalzamento della temperatura terrestre provocato dall’amplificarsi dell’effetto serra. È oramai dimostrato che l’aumento c’è. Le cause sono da attribuire anche alle emissioni di CO2 nell’aria da parte dei veicoli e dall’industria. Anche se è fenomeno graduale di cui non si conoscono ancora le ripercussioni sul clima a lungo termine, pare certo – confermano gli esperti – che la temperatura media del pianeta è salita di 0.6 gradi negli ultimi cento anni e l’habitat di piante ed animali ne ha già risentito.
Perciò, se come abbiamo detto, ogni animale per vivere ha bisogno di mangiare un altro animale o vegetale, come cambiano le loro abitudini se la temperatura aumenta?
Facciamo un altro esempio. Pensiamo ad una coppia di uccellini che ingannati dalla inusuale buona temperatura decidono di deporre prima le proprie uova. Al momento della schiusa anticipata, i genitori si troveranno in difficoltà nel procuragli il cibo perché i bruchi che solitamente si trovavano sulle foglie di una determinata pianta, quest’anno non ci sono. Il caldo prematuro ha fatto crescere più velocemente una pianta vicina, più adatta ad un clima secco – “xerofila” come dicono i botanici – che ha creato ombra alla sua concorrente non consentendogli di sviluppare quei germogli rigogliosi da cui i bruchi traevano nutrimento. Per la nidiata di uccellini, dunque, il rischio è che qualche componente non spicchi mai il volo. E anche per coloro che riusciranno a librarsi nell’aria, in ogni caso, il loro orologio biologico resterà regolato male per l’anno a venire. Perciò, se durante un inverno normale la nostra coppia di uccellini riusciva ad allevare per esempio almeno una prole composta da 4 componenti, con l’arrivo prima del previsto del caldo, i piccoli che riusciranno a diventare adulti saranno solo la metà. Se poi pensiamo che questa nuova generazione poteva essere una potenziale preda per un uccello rapace nelle vicinanze, vediamo che il problema si ripercuote sulle specie che occupano un posto superiore nella catena alimentare.
L’arrivo prima del previsto della primavera non cambia solo le abitudini alimentari degli animali ma anche i loro spostamenti. Se gli uccelli migratori non fanno in tempo a sentire abbastanza freddo per partire verso regioni più calde, fanno prima a restare dove sono, senza sprecare energie inutili. A questo proposito, in un‘intervista su Repubblica del 3 Gennaio 2003, Giampiero Maracchi, direttore del laboratorio di biometeorologia del CNR – quando gli si chiede quali saranno gli effetti del cambiamento climatico in Italia – risponde preoccupato: “Gli uccelli migratori – tordi beccacce, fringuelli, rondini e colombacci – sono partiti molto tardi per svernare nel Nord Africa. Alcuni si sono fermati nel sud Italia. Altri hanno rinunciato del tutto alla migrazione. A Firenze, ad esempio, è ancora possibile vedere gli storni in questa stagione. Le stesse zanzare, insieme ad altri insetti stagionali, sono riuscite a sopravvivere fino a dicembre nonostante il freddo sia micidiale per loro. I bocci delle mimose sono già spuntati. Oggi le piante sentono l’arrivo della primavera con una ventina di giorni di anticipo rispetto ad un decennio fa. All’inizio di marzo la natura comincia a risvegliarsi, e non c’è nulla di cui stupirsi: durante i mesi di novembre e dicembre dell’anno scorso abbiamo avuto per ben 20 giorni temperature superiori di 6 – 8 gradi rispetto alla media…” .
Richard P. Alley, esperto di cambiamenti climatici e docente presso la Pennsylvania State University, in un’altra intervista uscita sempre su la Repubblica il 3 gennaio 2003, afferma: “…questo impone agli animali di cambiare alimentazione, o di mangiare meno o di dover viaggiare più al lungo prima di potersi nutrire. E tutto ciò ha un prezzo”. Si riferisce al fatto che l’inasprirsi dell’effetto serra potrebbe condurre verso uno squilibrio ecologico netto e all’estinzione locale di alcune specie.
In uno studio pubblicato su Nature, Camille Parmesan, biologa presso l’Università del Texas, e Gary Yohe, economista presso la Wesleyan University, sostengono che tutti i più gravi cambiamenti ecologici accertati negli ultimi decenni sono da attribuire per il 95 % dei casi al surriscaldamento dell’atmosfera terrestre e a nessun altro fattore! “Ormai l’impatto del clima sul sistema naturale è del tutto evidente ed è importante che lo prendiamo seriamente in considerazione.” Affermano che in Europa alcune farfalle si sono spostate verso Nord di 50 – 100 chilometri o più, eguagliando gli spostamenti effettuati nelle stagioni mediamente più calde. (La Repubblica, 3 Gennaio 2003).
In California, presso la baia di Monterey, molti invertebrati marini sono stati indotti a cercare acque più fresche verso nord, trascinando con se tutte le specie marine correlate nella piramide alimentare. (La Repubblica, 3 Gennaio 2003).
In un altro studio, Terry L. Root, ecologo presso la Standford University aggiunge che i cambiamenti ecologici vengono amplificati non solo a causa del surriscaldamento generale, ma anche da altre attività umane simultanee, come l’espansione delle aree urbane o l’introduzione di specie esotiche invasive. Per esempio la farfalla “Quino cherckerspot”, una specie a rischio di estinzione con un territorio molto limitato a cavallo tra Messico settentrionale e California meridionale, ha abbandonato quasi definitivamente il Messico spinta dalle alte temperature e al contempo è costretta a spostarsi sempre più a sud dal proliferare delle estese periferie urbane intorno a Los Angeles e a San Diego (La Repubblica, 3 gennaio 2003).
Tutti questi studi e ricerche mostrano che il problema è serio e la sua domanda è pertinente ed attuale.
Nonostante tutto, personalmente, penso che l’uomo abbia i mezzi necessari per correre ai ripari in tempo.
Non dobbiamo dimenticare, inoltre, che si tratta di un fenomeno su scala globale di grande portata, in cui alcuni parametri ancora sfuggono alla nostra comprensione.
Probabilmente oggi facciamo anche più attenzione rispetto a qualche decennio alle mutevoli condizioni del tempo. Con questo non voglio sottovalutare il problema che resta rilevante.
Per la prima volta nella sua storia la nostra cara ed amata Terra conosce cosa significhino le attività umane; nessuna altra specie in passato era riuscita a modificare l’ambiente come stiamo facendo noi. Anche i più sofisticati computer che analizzano l’andamento del clima possono darci delle indicazioni approssimative al massimo per i prossimi 10 anni, oltre non sia sa. La natura ha il tempo che vuole. L’uomo no. Non disturbiamola troppo!