I meccanismi d’assorbimento dei minerali sono ancora poco documentati nelle piante spontanee in condizioni naturali, in particolare quelle erbacee, tanto meno nelle piante carnivore. Al contrario, sono stati molto studiati nelle piante coltivate in condizioni di stress idrico per implementarne la resa produttiva.
In generale, i tessuti delle radici, per assorbire la soluzione minerale circolante nel terreno, devono possedere all’interno delle proprie cellule un citosol con potenziale idrico (Ψ) più negativo di quello dell’acqua presente nel terreno circostante. L’acqua tende sempre a spostarsi, infatti, per diffusione da regioni con Ψ più basso (per esempio con valori poco negativi) verso quelle con Ψ più alto (valori più negativi).
Ricordiamo che, tralasciando il potenziale di matrice (τ) – che è una misura della tendenza del terreno ad assorbire ulteriori molecole d’acqua – il potenziale idrico (Ψ) è la somma del potenziale osmotico (Ψs) e di quello di pressione (P). Il primo è detto anche potenziale di soluto ed è determinato dalla presenza di particelle di soluto nella soluzione. In pratica è una misura della concentrazione di una soluzione, solamente che è espressa in unità di Mpa: i valori (negativi o nulli) divengono tanto più negativi quanto più la soluzione è concentrata.
Il potenziale di pressione è una pressione reale ed è rappresentata per esempio dalla spinta esercitata dal citosol contro la membrana cellulare, oppure dalla pressione della linfa all’interno di un vaso xilematico. Può avere qualsiasi valore ma, per convenzione, a pressione atmosferica P = 0. Un aumento di pressione determina un valore positivo, mentre la tensione (suzione o tiraggio, l’opposto della pressione) determina un valore negativo. Il potenziale di pressione è di solito positivo nelle cellule vive ma è tipicamente negativo nei vasi xilematici quando la pianta sta traspirando o nel terreno.
Alcuni esempi: il Ψ di una bacinella piena d’acqua demineralizzata o deionizzata alla pressione di 1 atm è uguale a zero, ma se sciogliamo all’interno un pizzico di sale il Ψ diverrà negativo perché il Ψs è diventato negativo. Il Ψ dell’acqua di falda, invece, è positivo perché, anche se è molto diluita, si trova sottoposta ad una pressione superiore a quella atmosferica che rende P ≥ 0. In un terreno umido al di sopra della superficie freatica P = 0 e il Ψs è solo poco negativo perché anche qui la soluzione circolante nel terreno è diluita, quindi anche Ψ sarà anch’esso poco negativo. La linfa xilematica è molto diluita, quindi il suo Ψs sarà solo poco negativo, ma essa si trova praticamente sempre in uno stato di tensione (P negativo), quindi il Ψ sarà più negativo nello xilema che nell’acqua circolante nel terreno. Di conseguenza, l’acqua passerà dal terreno alla pianta.
Perciò affinché le piante possano sopravvivere deve esserci sempre questo gradiente di Ψ tra il terreno e le radici, anche quando il contenuto idrico nel terreno raggiunge valori molto bassi (compresi per esempio tra l’8 e il 5 %). Questa ultima situazione si verifica durante eventi siccitosi estremi o nei deserti. Infatti, se le soluzioni circolanti nel terreno si fanno troppo concentrate, perché non diluite dagli apporti di nuovo solvente rappresentato dalle precipitazioni, allora c’è il rischio addirittura che venga richiamata acqua dalle radici verso il terreno, determinando la morte della pianta. Per ovviare a questo inconveniente, la natura ha selezionato delle piante (euxerofite) in grado di sintetizzare nelle proprie cellule radicali dei soluti che aumentano il Ψs del citoplasma. Questi composti sono definiti compatibili perché anche se presenti in concentrazioni elevate non denaturano gli enzimi citoplasmatici. La sintesi di questi composti, nel complesso, rende il Ψ nei vasi delle radici ancora più negativo di quello presente nella poca acqua pellicolare nel suolo arido, di conseguenza, le radici hanno la forza necessaria per estrarla.
All’estremo opposto, tuttavia, la natura ha selezionato un’altra tipologia di piante, che sono in grado di sopravvivere quando l’acqua circolante nel terreno è estremamente diluita a causa di precipitazioni intense o per ricambi eccessivi. Tali piante vengono definite glicofite o anche calcifughe e hanno sopraffatto i competitori adattandosi a vivere in suoli paludosi acidi. L’elevata piovosità nell’ambiente in cui vivono determina in modo costante la lisciviazione degli ioni a Ca2+, Mg2+, K+ ad una velocità molto più rapida della loro ricostituzione attraverso l’alterazione della frazione minerale, mentre gli ioni H+ e Al3+ diventano predominanti.
La scarsità di calcio nei suoli acidi può anche limitare la crescita delle piante semplicemente perché in assenza di calcio, l’H+ è molto più tossico per le radici. Inoltre, la concentrazione relativamente alta di Al3+ presente in molti suoli acidi può inibire la crescita di alcune specie.
Perciò in questi ambienti paludosi e torbosi, dove i nutrienti del suolo sono estremamente limitati, sopravvivono quelle specie che hanno evoluto dei meccanismi di tolleranza alle elevate concentrazioni di alluminio (e di altri metalli tossici) insieme a quelle il cui problema principale è di procurarsi la giusta quantità di minerali utili per i processi metabolici e di crescita, per esempio, della parete cellulare (e Ca2+è un elemento essenziale), del parenchima fogliare, dell’alburno etc. In queste ultime, a differenza delle euxerofite, non esiste il problema di assorbire acqua dal terreno, sia perché è molto abbondante sia perché è presente un buon gradiente di Ψ nel confine suolo-radice.
In ambienti così ostili a livello edafico, come quelli sopra descritti, la natura col tempo ha favorito anche altre specie di piante erbacee, caratterizzate da un singolare adattamento a livello fogliare che le rende in grado di integrare la carenza di nutrienti nel terreno, catturando e consumando insetti e artropodi.
Si tratta delle piante carnivore. Studi basati sull’analisi dei costi/benefici hanno dimostrato che la carnivorosità permette alle piante di accrescersi e di riprodursi utilizzando gli animali come fonte di azoto, fosforo e potassio, quando le fonti usuali presenti nel suolo sono scarse o assenti.
I meccanismi di tolleranza delle piante spontanee a elementi tossici non sono ancora ben noti, così come sono stati poco studiati quelli relativi al prelievo della giusta dose di elementi in soluzioni nutritive molto diluite nelle piante carnivore. Tuttavia, il ragionamento sopra descritto spiega forse il motivo del perché le piante carnivore coltivate non sopravvivono in acque minerali. In realtà, non sono i minerali presenti nell’acqua di irrigazione ad essere tossici (a parte il caso dell’alluminio sopra descritto) quanto probabilmente l’incapacità dei tessuti delle radici di sviluppare un Ψ poco più negativo di quello dell’acqua mineralizzata. A sua volta questa incapacità può derivare dal fatto che gli apporti minerali e organici, derivanti dalla digestione delle prede, sono tali che un ulteriore apporto causato anche dalle soluzioni del terreno creerebbero dei sbilanciamenti nei potenziali osmotici di membrana, e una concentrazione eccessiva di sali nel citosol.
Salisbury B. F., Ross C. W., Plant Physiology, 1992 Wadsworth, Inc.
Thoren, L.M., Karlsson P.S.,1992. Effects of supplementary feeding on growth and reproduction of three carnivorous plant species in a subarctic environment, Journal of Ecology 86: 501-510
http://it.wikipedia.org/wiki/Pianta_carnivora