Il vetro è in generale costituito da una base di silice (SiO2), in pratica sabbia, alla quale vengono aggiunti altri ossidi, più comunemente calce (CaO) e soda (Na2O). Quest’aggiunta è necessaria specialmente per le scarse caratteristiche meccaniche del vetro di silice pura, ottenuto per fusione del quarzo. Nel caso del vetro per applicazioni ottiche, che ci interessa, si aggiungono delle quantità di ossido di piombo (PbO), fino a circa il 20%. Idealmente, si può immaginare che un vetro di occhiali non colorato abbia la caratteristica di trasmettere tutte le radiazioni luminose. Le lunghezze d’onda delle radiazioni luminose sono comprese al massimo tra circa 380 (limite del violetto) ed 800 nanometri (limite del rosso), intervallo utilizzato nelle applicazioni ingegneristiche (illuminotecnica), anche se spesso si utilizza un intervallo più ristretto, dove la massima parte delle radiazioni viene in effetti percepita, tra 400 e 700 nanometri. Si può dividere artificialmente quest’intervallo (“spettro del visibile”) in un certo numero di colori, anche se si tratta evidentemente di un intervallo continuo di lunghezze d’onda. La suddivisione tradizionale nei colori dell’arcobaleno (rosso, arancio, giallo, verde, blu, indaco e violetto) rispecchia antichi motivi magici legati all’uso del numero sette: tuttavia divisioni in fasce di colore (spesso sei, escludendo l’indaco) sono ancora oggi utilizzate in fotometria.
In realtà però, il nostro occhio non ha un’uguale sensibilità a tutte le radiazioni elettromagnetiche visibili. Invece, la curva della sensibilità visiva ha due minimi in corrispondenza del limite del rosso e del limite del violetto, ed un massimo assoluto, corrispondente a radiazioni verdi-gialle di lunghezza d’onda di circa 556 nanometri per la visione fotopica (diurna). Il massimo assoluto di sensibilità per la visione scotopica (notturna) si trova invece a 505 nanometri, corrispondenti ad una radiazione verde. Tali curve sono riportate come curve di sensibilità standard per l’occhio umano, e normate dal 1924 dalla CIE (Commission Internationale de l’Eclairage).
Si parla, più recentemente, anche di una visione mesopica, in condizioni di poca luce (es. illuminazione stradale), dove la curva è approssimativamente intermedia tra le due, anche se si è anche rilevata in questo caso specifico una zona di maggiore sensibilità per le radiazioni di colore blu. Inoltre, ulteriori studi, mediati sulla stimolazione della fovea, suggeriscono la presenza di un massimo relativo di sensibilità a circa 610 nm (vedi Ref. 1).
Questa sensibilità non costante, unita alla presenza di una serie di disturbi visivi che possono dare una visione migliore in alcuni intervalli di lunghezze d’onda, può suggerire l’utilizzo di vetri colorati come lenti per gli occhiali.
La colorazione, che è in realtà dovuta al fatto di assorbire radiazioni di certe lunghezze d’onda, e si può meglio definire come “assorbimento selettivo della luce”, viene in generale ottenuta aggiungendo dei metalli od ossidi metallici, in particolare dei cosiddetti “metalli di transizione” (ferro, cobalto, nichel, cromo, manganese ed alcuni altri). E’ tipica l’aggiunta di titanio che dà un vetro giallo-marrone. Il manganese in piccole quantità neutralizza il colore verde, osservabile sul bordo del vetro, causato dalla presenza di ferro, abbastanza inevitabile nel vetro, mentre in quantità elevate dà il colore ametista. Piccole concentrazioni di cobalto (0.025-0.1%) danno colore blu. Dal 2 al 3% di ossido di rame produce un colore turchese, mentre il rame metallico dà un rosso opaco. Il nichel, seconda dalla concentrazione, induce una colorazione blu, violetta o anche nera.
Questo effetto è diverso da quello ottenuto con le lenti fotocromiche, che cambiano dalla luce al buio a seconda della quantità di luce ultravioletta alla quale sono esposte. In origine, le lenti fotocromiche erano di vetro, anche se oggi è possibile avere lenti fotocromiche anche in materie plastiche viniliche, e policarbonato. In questo caso l’effetto di colorazione in presenza di luce ultravioletta viene ottenuto con l’aggiunta di sali d’argento, tipicamente cloruro e bromuro, le cui molecole sono trasparenti alla luce visibile in assenza di radiazioni ultraviolette (luce artificiale), ma esposte alla luce solare diretta, si modificano chimicamente, divenendo selettivamente opache.
Infine, un effetto di colorazione non dovuto a modificazioni chimiche, ma fisiche delle lenti, è quello ottenibile con le lenti polaroid: queste lenti agiscono come filtri, che trasformano la luce naturale in luce polarizzata, cioè incidente solo secondo un certo angolo. Questo, oltre a ridurre il riverbero quasi a zero, motivo che ha condotto originariamente allo sviluppo di questa tecnologia intorno al 1930, permette di filtrare i raggi ultravioletti.
(1)
Daw, Neurophysiology of color vision, Physiol. Rev..1973;
53:
571-611