Nel periodo alchemico della chimica sono state scoperte leggi e fenomeni che hanno influenzato la scienza chimica moderna?

L’alchimia è un’antica disciplina di cui si sono trovati scritti risalenti al III-IV secolo d.C. Qualcuno, tuttavia, sostiene che la sua origine sia molto più remota e risalirebbe alla metà del primo millennio avanti Cristo e, addirittura, agli inizi dell’età del ferro. Questa disparità di opinioni nell’individuare la nascita dell’alchimia dipende sostanzialmente dal significato che si attribuisce a questa parola. Etimologicamente alchimia deriva dall’arabo al-kimiya che, probabilmente deriva a sua volta dall’egizio kême che significherebbe “terra nera”. Alcuni autori, sostengono tuttavia, che alchimia deriverebbe dal greco chyma che significa “fusione o scioglimento”. In ogni caso l’etimo della parola ci fa chiaramente comprendere come l’oggetto di studio principale di questa disciplina riguardi proprio la materia e le sue trasformazioni. Se l’alchimia viene dunque interpretata, in senso lato, come arte di manipolare la materia, la sua origine può senza dubbio essere collocata molto indietro nel tempo e le prime pratiche alchemiche possono essere individuate nelle operazioni metallurgiche che l’uomo aveva imparato a compiere e alle quali attribuì, in seguito, un significato simbolico, oltre che pratico. L’alchimia, infatti, a differenza delle altre discipline, filosofiche e scientifiche, che si occuparono di materia, è caratterizzata da un massiccio uso di simbolismi e allegorie.

L’alchimia propriamente detta raccoglie il patrimonio di conoscenze dell’antichità (soprattutto egizio) relativo alle proprietà e alle trasformazioni della materia. Tale patrimonio venne ripreso e arricchito dalla cultura araba a partire dal VII secolo d.C. e per tutto il Medioevo. L’alchimia si diffuse ben presto in Occidente e costituì un curioso fenomeno che perdurò fino al 1600 e che, sia pure in modo sporadico, sopravvive ancora oggi. Essa viene pure indicata come “arte ermetica” o “magistero ermetico” in quanto, secondo la tradizione, il primo a occuparsi di tale disciplina fu il mitico sapiente Ermete Trismegisto, nella cui figura venivano fusi il dio egizio Thot e il greco Ermes.
In origine l’alchimia aveva probabilmente scopi pratici e tecnologici. Ben presto però si trasformò in una curiosa attività iniziatica e segreta in cui gli adepti, pur continuando a occuparsi delle trasformazioni della materia, attribuivano però a queste ultime un profondo significato spirituale.

L’obiettivo degli alchimisti era la ricerca della “pietra filosofale”, misteriosa sostanza in grado di trasformare in oro i metalli vili. Lo scopo non era tuttavia economico. La rigenerazione dei metalli verso lo stato di perfezione rappresentato dall’oro rispecchiava, per analogia, la redenzione dell’uomo verso lo stato di grazia, perduto a causa del peccato originale. L’obiettivo principale dell’alchimia non era pertanto la trasmutazione dei metalli, bensì la trasformazione dell’alchimista stesso verso un’umanità nobile e aurea.
L’alchimia fu una sorta di filosofia mistica, intrisa di elementi magici ed esoterici. Ciò nonostante gli alchimisti, con il loro paziente lavoro di laboratorio, accumularono una serie di conoscenze che si dimostreranno utili per la successiva nascita della chimica moderna e per l’acquisizione di nuove conoscenze sulla materia.
Al giorno d’oggi, nonostante lo sviluppo della chimica, alcuni isolati cultori continuano a occuparsi di pratiche alchemiche, privilegiando soprattutto i suoi aspetti psicologici. L’interpretazione psicologica delle pratiche alchemiche si è sviluppata soprattutto in seguito ai lavori di Carl Gustav Jung. Nella sua opera Psicologia e alchimia (del 1944), egli interpreta infatti in chiave simbolica il linguaggio alchemico, ritenendo di individuare in esso le strutture profonde e archetipe della psiche umana.
Nel loro incessante sperimentare con la materia, tra alambicchi e altre diavolerie, gli alchimisti, pur inseguendo un sogno illusorio, diedero interessanti contributi alla conoscenza delle proprietà della materia e la loro opera fornì non pochi apporti alla nascita della chimica moderna. Ad esempio, numerose furono le nuove sostanze che gli alchimisti riuscirono a isolare e a studiare. La potassa caustica (idrossido di potassio), il cinabro (solfuro di mercurio), il minio (ossido di piombo), scoperti da quel grande filosofo-alchimista che fu Alberto Magno (1193-1280). Il bicarbonato di sodio, scoperto da Raimondo Lullo (1235-1315), l’etere solforico (etere dietilico) e l’acido cloridrico, isolati da Basilio Valentino (XVI secolo), il solfato di sodio prodotto per la prima volta da Giovanni Rodolfo Glauber (1604-1668), per arrivare al fosforo, isolato da Hennig Brandt (m. nel 1692) e all’acido benzoico, scoperto da Blaise Vigènere (1523-1596).
Gli alchimisti, inoltre, si resero conto per primi dell’esistenza della materia allo stato gassoso, soprattutto a opera di Giovanni Battista Van Helmont (1577-1644), dando origine a quella “chimica pneumatica” che così grandi contributi doveva fornire alla comprensione della materia. Le pratiche alchemiche condussero inoltre alla scoperta e al perfezionamento di numerose tecniche di laboratorio che si riveleranno estremamente utili per la successiva nascita delle indagini scientifiche della materia.

Nonostante gli sporadici contributi alla conoscenza della materia e delle sue proprietà, quello che mancò all’alchimia fu la capacità di elaborare un metodo sperimentale razionale che procedesse di pari passo con l’elaborazione di teorie.

Una figura di primissimo piano che diede un contributo fondamentale alla transizione tra l’alchimia e la chimica, modernamente intesa come scienza della materia, fu quella dell’irlandese Robert Boyle (1627-1691). Oltre ad aver fornito importanti contributi allo studio dei gas (ben nota è la “legge di Boyle e Mariotte”). Il suo nome è inscindibilmente legato alla chiarificazione del fondamentale concetto di “elemento”. Boyle illustra le sue concezioni nella sua celebre opera The Sceptical Chymist (Il Chimico Scettico) del 1661. Il libro è scritto in forma di dialogo tra il filosofo antico Carneade (219-388 a.C.) e altri tre personaggi di nome, rispettivamente, Temistio, Filopono ed Eleuterio. Tutto il dialogo è una serrata critica alle concezioni aristoteliche della materia e in particolare alla teoria dei quattro elementi, aria, acqua, terra e fuoco. Caratteristico di tutta l’opera di Boyle è il ruolo centrale attribuito alla sperimentazione. L’importanza dell’esperimento si manifesta anche nella sua innovativa definizione di elemento, inteso come sostanza non ulteriormente decomponibile con le tecniche conosciute. In tale concezione vi è un duplice aspetto che merita di essere evidenziato. Da un lato non si parte più da pure speculazioni filosofiche, come quelle che avevano portato alla teoria dei quattro elementi empedoclei-aristotelici. Boyle parte dai fatti per cercare di interpretare la realtà: non parte da principi primi per interpretare i fatti. Secondariamente la definizione di elemento di Boyle è di tipo operativo. Questo è un requisito indispensabile per qualsiasi concetto scientifico, degno di questo nome. Nella scienza, infatti, deve essere bandita ogni ambiguità e le definizioni devono essere univocamente interpretate da chiunque. Le definizioni operative sono quelle che meglio di ogni altra soddisfano questa caratteristica. Boyle manifesta questo suo amore per l’univocità e la chiarezza anche nell’estrema cura con cui egli affronta il problema del linguaggio. Egli si scaglia contro la tendenza dell’epoca a usare modi di esprimersi altisonanti ed ermetici. Essi non sono altro che il sintomo di scarsa chiarezza di idee e di ignoranza su ciò di cui si intende parlare. Va inoltre osservato che Boyle aderisce alle concezioni atomistiche. In particolare egli utilizza queste concezioni per interpretare il “fuoco”. Esso, infatti, non è più visto come un elemento, come nella fisica aristotelica, bensì come un “agente” in grado di imprimere movimento alle particelle e che può essere utilmente impiegato dal chimico per eseguire la scomposizione delle sostanze.

Le speculazioni dei filosofi, pur rivelando talvolta poderose intuizioni come l’atomismo, erano del tutto slegate dall’esperienza. Di conseguenza esse non potevano andare al di là della singola opinione individuale, incapaci com’erano di dimostrare la propria validità. Gli alchimisti, con tutti i loro limiti e i falsi preconcetti da cui partivano, ebbero tuttavia il merito di dare ampio spazio alla sperimentazione. Come abbiamo visto anche Boyle continuò a muoversi in quest’ottica, riducendo sempre di più le idee preconcette e basandosi sempre di più sui fatti osservati. Gli studiosi del XVII secolo cominciarono, in genere, ad accettare l’idea (che oggi appare scontata, ma che a quei tempi non lo era affatto) secondo la quale ogni congettura e ogni teoria dovevano, in qualche misura, confrontarsi con i risultati ottenibili per via sperimentale. Per quanto riguarda la materia, e quindi la chimica, la prima teoria, degna di questo nome, che venne formulata nel tentativo di interpretare i dati sperimentali fu quella del “flogisto”. Gli alchimisti, fedeli in ciò ad Aristotele, ritenevano il fuoco un elemento. Di conseguenza, quando una sostanza bruciava, essi pensavano che liberasse la porzione di fuoco in essa contenuta. Nel 1669 l’alchimista tedesco Johann Joachim Becher (1635-1682) sostituì all’elemento aristotelico “fuoco” un nuovo principio infiammabile che egli chiamò “terra pinguis”. Un discepolo di Becher fu il suo connazionale, medico e chimico, Georg Ernest Stahl (1660-1734). Stahl rielaborò le idee del maestro e propose di chiamare il principio infiammabile con il nome di “flogisto”. La teoria del flogisto riusciva a spiegare bene il fenomeno della combustione. Le sostanze combustibili, secondo Stahl, sarebbero state, infatti, ricche di flogisto. Durante la combustione esse perdevano tale componente. I residui della combustione (ceneri) non erano più in grado di bruciare perché prive di flogisto. La stessa teoria riusciva anche a spiegare perché i metalli si trasformavano in ruggini o “calci” (oggi diremmo ossidi) e come fosse possibile ottenere i metalli riscaldando i loro minerali (calci) in presenza di carbone. Durante il processo di arrugginimento, un metallo perdeva flogisto, comportandosi in modo analogo a una sostanza che brucia. Viceversa, quando si scaldava un minerale in presenza di carbone, quest’ultimo, ricco di flogisto, lo cedeva al minerale. In tal modo veniva ripristinato il metallo, ricco di flogisto, mentre il carbone dava origine alla cenere, povera di flogisto. Va osservato che secondo la teoria di Stahl, l’aria non aveva nessun ruolo attivo né nella combustione né nel processo di arrugginimento dei metalli. Essa aveva semplicemente il ruolo di intermediario: in pratica raccoglieva il flogisto dalle sostanze che lo contenevano e lo cedeva a quelle che ne erano prive.

La teoria del flogisto, nonostante fosse concettualmente sbagliata, rappresentò tuttavia un primo tentativo di teoria scientifica nel senso moderno del termine. I successivi studi sulla chimica pneumatica e la grandiosa opera di razionalizzazione dei fenomeni chimici attuata da Antoine Laurent Lavoisier (1743-1794) determineranno il totale affrancamento dalle idee metafisiche e misticheggianti dell’alchimia e la definitiva nascita della chimica intesa come moderna scienza della materia.

Riferimenti per ulteriori approfondimenti:

1) T. Burckhardt, Alchimia: significato e visione del mondo, Guanda, Parma 1991;

2) C.G. Jung, Psicologia e alchimia, Astrolabio, Roma 1950;

3) Si veda, ad esempio, la traduzione italiana: R.Boyle, Il chimico scettico (a cura di M.Chiapparelli Sbrana), Theoria, Roma 1985;

4) J.Solov’ev, L’evoluzione del pensiero chimico dal ’600 ai giorni nostri, Mondadori, Milano 1976;

5) M. Beretta, Lavoisier: la rivoluzione chimica, Le Scienze, Milano 1998.