Vorrei chiedere quali sono le ipotesi formulate dai cosmologi per spiegare i nuovi dati dei satelliti artificiali COBE e PLANCK, e i dati emersi dall’osservazione delle supernovae di primo tipo, che sembrano mostrare un universo in accelerazione anziché in decelerazione. In altre parole quali sono le ipotesi più’ accreditate sulla natura della costante cosmologica einsteiniana che è improvvisamente tornata di moda?

Quella di
un universo in accelerazione è una delle (presunte) scoperte scientifiche
più clamorose degli ultimi anni. Ripercorro brevemente le tappe
della scoperta per i lettori che non fossero informati sull’argomento.

E’ noto
che l’universo viene da una fase molto densa e calda, le cui vestigia
sono giunte fino a noi sotto forma di radiazione fossile di fondo (o cosmic
background
). Il satellite COBE ha dimostrato che questa radiazione
ha spettro planckiano, come ci si aspetterebbe da un corpo che si è
raffreddato, ed è estremamente omogenea (possiede disomogeneità
di solo una parte su diecimila), cosa che avvalla il modello di universo
inflazionario.
D’altro canto, questo promettente modello avanza una richiesta molto stringente
perché sia applicabile, e cioè che la densità media
dell’universo sia esattamente uguale a quella necessaria per rendere la
geometria dello spazio-tempo piatta.
Mi spiego meglio: è noto dalla relatività generale che la
massa (e non solo essa) curva lo spazio attorno a se, per cui ci si attende
che la materia dell’universo ne curvi lo spazio. Se però l’universo
è passato attraverso una fase inflativa, questa deve aver “stirato”
lo spazio rendendolo praticamente piatto, oltre che aver reso molto più
omogeneo ed isotropo l’universo stesso, come COBE ha dimostrato.

Ora, è
possibile calcolare quale sia la densità media di materia che è
necessaria affinché l’universo risulti piatto ed esprimere la curvatura
dello spazio servendosi del rapporto tra la densità reale dell’universo
e quella teorica. Questo rapporto è convenzionalmente indicato
con la lettera greca maiuscola omega (W).
Se
W
>1 l’universo
è più denso del necessario, per cui ha una geometria chiusa,
se invece
W
<1 esso
è troppo poco denso e la sua geometria è aperta.

Se computiamo
tutta la materia visibile nello spazio, essa risulta troppo poca per chiudere
lo spazio, in quanto essa è circa il 20% del valore critico; si
esprime questo fatto dicendo che
W
M=0,2
dove il pedice M sta per “materia”. Questo fatto è però
in contraddizione col modello di universo inflativo che richiede W
=1, perciò si è cominciato a pensare che esista nello spazio
una grande quantità di “materia oscura”, cioè una qualche
forma di materia che non emette luce ma che ha effetti gravitazionali
consistenti, che contribuiscono al computo di W
(per la verità, esiste anche tutta una serie di prove sperimentali
che conferma l’esistenza della materia oscura).
Da questa valutazione è nato un intero filone della cosmologia
sia teorica che sperimentale, nel tentativo di capire di che genere di
materia si tratti e quali osservazioni potrebbero metterla in luce. Alcuni
astronomi hanno pensato a nane brune ed a nane rosse, altri ad una massa
dei neutrini, altri ancora a particelle non ancora scoperte perché
interagiscono poco con la materia ordinaria (le cosiddette WIMPs – Weak
Interacting Massive Particles
), altri ancora alle particelle supersimmetriche
teorizzate dai modelli di unificazione delle forze in fisica. Malgrado
gli sforzi, però, nessuna osservazione ha mai dimostrato un contributo
preponderante al valore di W .
In teoria, le leggere fluttuazioni residue della radiazione fossile di
fondo possono dare un suggerimento sulla quantità totale di materia
presente nell’universo, in quanto alcuni studi teorici hanno dimostrato
che il valore di
W
M
influenza la distribuzione di queste fluttuazioni; sfortunatamente il
satellite COBE non possedeva una sufficiente risoluzione spaziale per
valutare questa distribuzione e dipanare il mistero; perciò in
questi anni è in via di progettazione il suo successore, battezzato
Planck, il cui lancio è previsto per il 2007 e che dovrebbe essere
il grado, grazie alla risoluzione molto più elevata, di tracciare
una mappa dettagliata della distribuzione del cosmic background.

C’è
però un’altra possibilità da prendere in considerazione,
per colmare il gap che separa l’attuale stima di
W
M
da 0,2 fino al fatidico e richiesto 1: originariamente, quando Einstein
formulò la teoria della relatività, introdusse nelle sue
equazioni un parametro (L) il cui effetto
sarebbe equivalente ad una forza repulsiva che agisce sulle grandi distanze.
Egli giustificò la sua scelta sostenendo che, altrimenti, un universo
statico avrebbe dovuto collassare su se stesso e spiegò che la
natura fisica di questo parametro, noto come “costante cosmologica”, avrebbe
dovuto essere cercata nella pressione che si sviluppa a causa dell’energia
del vuoto quantistico. In altre parole, una delle previsioni della fisica
quantistica è l’esistenza di un'”energia di punto zero”, non nulla,
che si presenta anche nel vuoto assoluto ed il cui effetto può
essere percepito sulla geometria dello spazio.

Pochi anni
dopo, Hubble scoprì l’espansione dell’universo e la costante cosmologica
non era più necessaria per spiegarne il mancato collasso, così
Einstein la cancellò dalle sue equazioni e la definì “il
più grande errore della mia vita”.
Eppure la costante cosmologica, oltre ad avere un effetto repulsivo, introdurrebbe
un computo positivo al parametro di densità W
, costituendo proprio quello che i cosmologi stanno cercando.
Nel 1998 gli astronomi del Supernova Cosmology Project hanno annunciato
che, osservando alcune supernovae molto distanti, avrebbero trovato un
indizio di un’espansione accelerata dell’universo, il che avvalorerebbe
l’ipotesi dell’esistenza di L e contemporaneamente renderebbe conto
del perché il termine
W
M
risulti irrimediabilmente minore di 1: in tal caso, il requisito da soddisfare
sarebbe
W
M+W
L
=1 e non più semplicemente
W
M=1.
L’idea di questi astronomi parte dalla considerazione che le supernovae
di tipo Ia hanno tutte circa la stessa magnitudine assoluta nel punto
di massima luminosità, perciò rappresentano una buona “candela
standard” per misurarne la distanza, partendo dal presupposto che la loro
luminosità apparente è legata solo a quella assoluta ed
alla distanza. E’ dunque possibile correlare il redshift della galassia
che ospita la supernova con la sua distanza e testare così la legge
di Hubble: se l’universo è in espansione accelerata le supernovae
risulteranno leggermente più deboli di quanto atteso in base al
redshift, se invece è in decelerazione esse saranno un poco più
luminose.
La scoperta consiste proprio nell’aver notato che le supernovae distanti
risultavano sempre un poco più deboli di quanto aspettato (circa
mezza magnitudine), suggerendo un’espansione accelerata dell’universo
e dunque tutte le citate conseguenze sulle teorie cosmologiche.