In riferimento alla metodologia scientifica, fin da Galileo, mi chiedevo, cosa si può dire riguardo all’evoluzione del rapporto tra teoria e dati empirici negli autori che in tale contesto hanno avuto un ruolo importante.

 

Evandro Agazzi (a sinistra) e Hilary Putnam (a destra)

La storia della filosofia ci ha tramandato un aneddoto che, vero o falso che sia, è particolarmente significativo riguardo il rapporto tra teoria ed esperimento.
Diogene di Sinope (IV secolo a.C.), il cinico, per confutare i famosi paradossi di Zenone che miravano a dimostrare l’inesistenza del moto, si alzò in piedi e camminò avanti e indietro.
Se ci si fosse accontentati di una simile confutazione “sperimentale” la storia del pensiero avrebbe subìto enormi danni. Sono infatti ben noti i grandi progressi scientifici e filosofici che i paradossi di Zenone hanno stimolato. (Si narra, tuttavia, che lo stesso Diogene percosse un discepolo che si era accontentato della sua confutazione).
 
Esperimento e teoria sono da sempre considerati due componenti irrinunciabili di ogni attività scientifica. Già Galileo si era reso conto della necessità di ricorrere a sensate esperienze e necessarie dimostrazioni, per indagare la realtà naturale. Tradizionalmente, inoltre, gli esperimenti e le teorie sono sempre stati considerati nettamente distinti e distinguibili.
 
Il ruolo rivoluzionario avuto da Galileo nella storia del pensiero non consiste, come spesso si afferma, nell’aver elaborato un metodo d’indagine che attribuiva un’importanza centrale all’osservazione sperimentale (cosa pure importantissima). Prima di Galileo, infatti, altri autori (ad esempio Ruggero Bacone, nel XIII secolo) avevano sottolineato la necessità di ricorrere all’esperienza per studiare la realtà. Galileo fu invece il primo a rendersi conto della necessità di ricercare una nuova forma di conoscenza, non filosofica, per indagare la natura. Per Galileo è perfettamente inutile ricercare spiegazioni ultime delle cose, se siamo assolutamente incapaci di trovarle. È molto più saggio e onesto accontentarsi di studiare alcuni aspetti della realtà, sia pur parziali e particolari, che sono però accessibili alle nostre possibilità.
 
Ben presto ci si è resi conto che una semplice osservazione qualitativa non è sufficiente per descrivere adeguatamente la realtà. Di conseguenza è nata la necessità di introdurre un’analisi quantitativa: anche in tal senso il ruolo di Galileo è stato determinante. Per descrivere quantitativamente la realtà è necessario concentrarsi su quelle sue proprietà alle quali è possibile associare un valore numerico (grandezze). Questa corrispondenza tra realtà fisica e numeri consente di applicare i metodi della matematica alla descrizione del mondo.
 
Un certo tipo di epistemologia ha da sempre considerato i dati sperimentali come qualcosa di primitivo, assolutamente disgiunto da ogni componente teorica. Le teorie verrebbero costruite a posteriori, ma non influenzerebbero assolutamente l’acquisizione dei dati sperimentali. Tuttavia questa netta distinzione tra teoria ed esperimento è stata da più parti messa in discussione.
 
I termini osservativi sono quelli che avrebbero un denotato direttamente associato alle osservazioni sperimentali e alle operazioni di misura. Al contrario, i termini teorici sarebbero quelli che si riferiscono a oggetti e proprietà non direttamente osservabili.
I fautori della distinzione tra le due classi di termini sostengono inoltre che, almeno in linea di principio, i termini teorici possono essere espressi attraverso definizioni che utilizzino esclusivamente termini osservativi. Essi possono pertanto essere idealmente eliminati dal linguaggio scientifico. Questa posizione, fatta propria da esponenti di spicco dell’empirismo logico, portò a una sopravvalutazione dei termini osservativi che si avverte ancora oggi nella pratica e nella didattica delle scienze empiriche.
 
Buona parte dell’epistemologia contemporanea sostiene che la netta distinzione tra termini osservativi e teorici non ha alcun fondamento. Inoltre se si volesse eliminare una sola delle due categorie, probabilmente sarebbero proprio i termini osservativi a scomparire, a favore di quelli teorici. In altre parole anche i termini tradizionalmente indicati come osservativi sono inevitabilmente intrisi di teoria (theory-laden).
 
Gli studi psicologici ci hanno insegnato chiaramente che il modo in cui percepiamo la realtà non è affatto innato, bensì appreso. Di conseguenza un’osservazione sperimentale non è qualche cosa di completamente oggettivo e primitivo, ma è fortemente dipendente dalle preconoscenze del soggetto.
Ogni strumento di misura, per semplice che possa essere, è inoltre frutto di una teoria. Di conseguenza anche i “dati sperimentali” che esso consente di ottenere sono ben lungi dall’essere privi di una componente teorica.
 
Il contenuto teorico dei dati sperimentali appare dunque innegabile. Occorre tuttavia osservare che un parziale recupero della loro “oggettività” è possibile in base alla seguente considerazione, proposta dall’epistemologo Evandro Agazzi. Spesso la teoria di cui è imbevuto un dato empirico è “un’altra” rispetto a quella che il dato raccolto deve confermare o confutare. Questo evita, per fortuna, una pericolosa circolarità e consente di attribuire una certa referenzialità agli enunciati scientifici. Infatti, questa considerazione, pur non negando l’infondatezza della distinzione tra termini osservativi e teorici in senso assoluto, consente un parziale recupero di tale distinzione in senso relativo. Infatti ciò che può essere teorico in un certo ambito, può essere considerato osservativo in un ambito diverso.
 
La concezione tradizionale del metodo scientifico prevede che una teoria venga accettata se le sue conseguenze sono in accordo con i dati sperimentali o rifiutata, in caso contrario. La logica, tuttavia, ci insegna che mentre la verità delle premesse garantisce la verità delle conseguenze, la verità delle conseguenze non garantisce affatto quella delle premesse. Ciò significa che una teoria scientifica non può mai essere completamente verificata dai suoi successi, mentre può essere falsificata con certezza, di fronte a un suo insuccesso. Su queste considerazioni si basa il falsificazionismo di Karl Popper, da lui eretto a criterio generale di demarcazione tra teorie scientifiche e non (v. http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta.php?num=2816).
Tuttavia, ancora una volta, l’attraente semplicità di tale concezione è stata oggetto di critiche da parte della ricerca epistemologica contemporanea e da un attento studio della storia della scienza.
 
Il filosofo americano Hilary Putnam sostiene che una teoria scientifica è di per sé incapace di fare qualsiasi previsione. Il suo potere predittivo deriva dalla sua associazione con quelle che egli chiama asserzioni ausiliarie (AA). Tali asserzioni sono ipotesi estremamente semplificatrici, sulla cui certezza è lecito nutrire forti dubbi, che spesso definiscono le “condizioni al contorno” del fenomeno che si vuole studiare. Nel caso in cui l’associazione tra teoria e AA fallisca le sue previsioni, non viene eliminata la teoria, ma, al contrario, vengono rivedute e modificate le AA, in quanto ritenute meno certe. In pratica, di fronte a un disaccordo tra previsioni teoriche e dati sperimentali, vengono formulate ipotesi ad hoc per superare le difficoltà. Ovviamente questo si verifica quando la teoria è ben collaudata, ovvero quando ha già fornito numerose prove di successo. È evidente che questa concezione che valuta la “verità” di una teoria in base al numero di successi ottenuti rispetto ai suoi insuccessi è ben lungi dall’ideale di rigore e di esattezza tradizionalmente attribuito alle scienze.
Concezioni analoghe sono state espresse da più voci nell’attuale panorama epistemologico.
 
Orbene, se i dati sperimentali non sono in grado di confutare le teorie, in che modo esse vengono abbandonate? La risposta ce la fornisce ancora una volta Putnam: unicamente tramite teorie alternative. Una teoria può essere dichiarata falsa solamente di fronte a una teoria alternativa in grado di riscuotere maggior successo della prima. In assenza di teorie alternative, quella iniziale viene conservata e i suoi eventuali disaccordi con i fatti vengono considerati semplici anomalie, la cui causa è sconosciuta.
 
La storia della scienza ci offre numerose prove a sostegno di tale concezione. Un esempio particolarmente significativo ci sembra quello della teoria del flogisto che dominò per un lungo periodo gli esordi della scienza chimica. Nel XVIII secolo la teoria del flogisto dominava incontrastata nel mondo chimico nonostante fossero numerosi i dati sperimentali che essa non riusciva affatto a interpretare. I suoi numerosi successi impedivano ai chimici di liberarsene e le ipotesi ad hoc che cercavano di risolvere i casi controversi abbondarono. Solamente quando venne proposta una teoria alternativa di maggior successo (la teoria dell’ossigeno di Lavoisier) essa venne definitivamente abbandonata.
 
Un ulteriore criterio che può determinare l’affermazione di una teoria su un’altra è la ricerca della spiegazione più semplice. Questo criterio di ricerca della verità è stato formulato per la prima volta dal filosofo scolastico del XIV secolo Guglielmo di Occam e viene comunemente chiamato rasoio di Occam. Quando esistono spiegazioni alternative per uno stesso fenomeno, conviene scegliere la più semplice eliminando tutte quelle ipotesi che non sono strettamente necessarie. In altre parole, prima di formulare teorie rivoluzionarie, occorre verificare se un certo fenomeno non possa essere interpretato con le teorie esistenti. Esaminando la storia della scienza ci si rende conto che tale criterio è stato costantemente rispettato e rappresenta una sorta di principio di economia che non ha mai cessato di dimostrare la propria efficacia.
 
In conclusione, il ruolo svolto dall’esperimento appare piuttosto ridimensionato rispetto a quello che gli era stato attribuito da una certa concezione tradizionale di stampo neopositivista. Il ruolo delle teorie appare al contrario dominante in ogni aspetto dell’attività scientifica. Come afferma il filosofo Evandro Agazzi, attribuendo un’eccessiva importanza ai termini osservativi:
 
…si rischia di dimenticare che l’aspetto più importante della scienza è proprio quello di procedere a nuove concettualizzazioni, per le quali l’esperienza non ci dà suggerimenti immediati; si rischia, cioè, di sottovalutare tutto quell’apporto tipicamente intellettuale e “teorico” che è necessario per giungere alla spiegazione scientifica [E. Agazzi, Temi e problemi di filosofia della fisica, Abete, Roma 1974]
 
Tuttavia appare anche chiara una cosa: ogni teoria, per avere un qualche valore, deve necessariamente fare i conti con i dati sperimentali. In assenza di dati sperimentali non ha assolutamente senso costruire una teoria: quando questo accade si esce dalla scienza per ricadere nell’ambito metafisico, che non ha alcuna possibilità di uscire dallo stretto ambito dell’opinione individuale.
 
Nota: buona parte di quanto sopra riportato è tratto dal libro dell’autore: S.Fuso, Realtà o illusione? Scienza, pseudoscienza e paranormale, Dedalo, Bari 1999.