Domanda articolata sulle inconsistenze del modello del Big-Bang

Prima di
rispondere alla domanda, desidero inquadrare meglio il problema, apportando
anche delle correzioni alle sue perentorie affermazioni, che non ritengo
così assodate come da lei presentate.

Non
mi sento d’accordo con la sua prima frase, secondo cui negli ultimi trent’anni
le colonne portanti del Big Bang si stiano sgretolando; è vero
semmai che molteplici osservazioni hanno contribuito a migliorarne l’evidenza
ed a raffinarne il modello, sebbene vi siano state anche alcune scoperte
che poco vi si conciliano. Tra queste ultime le due principali sono i
cosiddetti “redshift anomali” evidenziati da Arp e la disposizione “a
grumi” delle galassie, il cui primo indizio è stato portato da
Geller ed Huchra in un lavoro comparso su Science nel 1989 (1)
(e dunque non trenta ma dieci anni fa).

Venendo
a questa ultima scoperta, i due astronomi costruirono una mappa tridimensionale
di una regione dell’universo, considerando non solo le coordinate bidimensionali
di alcune migliaia di galassie, ma anche la loro distanza, servendosi
della legge di Hubble e della misura del loro redshift. Essi misero in
luce che, contrariamente a quanto ci si sarebbe aspettati tenuto conto
dell’omogeneità del fondo cosmico a microonde (che è un
indicatore della distribuzione della materia in epoca primordiale), la
materia raggruppata nelle galassie a noi più vicine sembrava disposta
in modo estremamente disomogeneo, tanto da potersi individuare alcune
macrostrutture, soprannominate “Grande Muraglia”, “Suonatore di violino”,
…, alternate ad altrettanti immensi vuoti. Una scoperta così
clamorosa ha avviato un complesso meccanismo di verifica in seno alla
comunità astronomica, attualmente in atto, ma ha anche immediatamente
fornito un appiglio a tutti coloro che sostengono l’infondatezza del Big
Bang (cosa quanto meno curiosa, dal momento che la prima evidenza negata
da questi ultimi è la relazione tra redshift e distanza espressa
dalla legge di Hubble e usata invece come base teorica da Geller ed Huchra!).

Sul
piano ipotetico, James Peebles dell’Università di Princeton, ha
suggerito che quello osservato potesse essere semplicemente un effetto
“selettivo” del nostro cervello: come spesso siamo tentati di riconoscere
volti e figure anche in distribuzioni del tutto casuali quali le nuvole,
le macchie di umidità, ecc…, è benissimo possibile che un
fenomeno simile stesse accadendo con la distribuzione delle galassie,
tanto più che la porzione di cielo considerata inizialmente era
piuttosto piccola e statisticamente poco significativa. Nel corso degli
ultimi 10 anni si sono condotte pertanto survey analoghe in diverse altre
zone del cielo, sia prendendo in considerazione le singole galassie, sia
gli ammassi di galassie, la cui misura del redshift può essere
resa statisticamente più accurata (alcune di queste recano il nome
di CfA1 Redshift Survey, CfA2 Redshift Survey, Southern Sky Redshift Survey,
…); il lavoro attualmente più completo di cui ho notizia è
stato condotto da un team internazionale capeggiato da Jaan e Maret Einasto,
che ha raccolto le osservazioni pubblicate su circa 300 precedenti articoli
ed ha pubblicato le conclusioni nel 1997 su Nature (2). Esso
ha messo in luce una effettiva rilevanza statistica delle disomogeneità:
in altre parole sembra che la struttura “a grumi” dell’universo sia almeno
in parte reale. D’altro canto parallelamente il satellite COBE ha misurato
molto più accuratamente il fondo a microonde ed ha messo in luce
come anche esso sia disomogeneo (sebbene in maniera molto meno marcata).
La questione si è dunque spostata sul fatto se sia possibile o
meno che queste disomogeneità primordiali si siano amplificate
in modo da divenire così evidenti ai giorni nostri. Il problema
è spostato sul piano teorico, non più solo osservativo,
e cioè se sia possibile formulare una teoria che preveda, sotto
l’effetto della gravità, il prodursi di strutture macroscopiche
nel tempo di 10-15 miliardi di anni quale è l’età stimata
dell’universo, partendo da disomogeneità molto più piccole;
nel tentare di dare una risposta è probabile si debba anche tenere
conto che la supposta
materia
oscura
che permea lo spazio avrebbe un ruolo
determinante. Una risposta definitiva non è al momento ancora disponibile,
e le ricerche sono tuttora in atto.

In
tutto quanto visto finora Hannes Alfvén non rientra in alcun modo.
Alfvén,
premio nobel per la fisica nel 1970 per i suoi studi e le sue scoperte
nel campo della magnetodinamica, in campo astronomico è noto per
aver dimostrato come i campi magnetici devono aver giocato un ruolo fondamentale
nell’aggregazione dei pianeti nella nebulosa primordiale che costituiva
il sistema solare ai suoi albori. Egli inoltre ha mostrato come il campo
magnetico della Via Lattea non possa essere la semplice sovrapposizione
dei campi magnetici delle singole stelle, ma vi deve essere un “campo
galattico”, presumibilmente alimentato dai moti dal plasma interstellare,
che tra l’altro dovrebbe avere un ruolo importante nell’aggregazione delle
nubi interstellari e nella formazione della struttura della galassia.
Seguendo il medesimo ragionamento, egli ha suggerito che il plasma intergalattico
(bisogna ricordare che gran parte della materia dell’universo è
allo stato di plasma) possa condizionare i moti su grande scala dell’universo,
sovrapponendosi e in molti casi dominando sulla gravità. Egli,
sempre in via del tutto ipotetica, ha anche mostrato che se l’universo
fosse fatto di ugual quantità di materia e antimateria, racchiuse
un regioni distinte e a contatto solo ai loro bordi, allora il Big Bang
potrebbe essere solo l’esplosione scaturita dal venire a contatto di due
di queste regioni, e potrebbe essere pertanto un fenomeno episodico e
“locale” in un universo molto più grande ed eterno.
Per verificare la seconda ipotesi sono in via di studio delle missioni
spaziali che misurino le particelle del vento interstellare e cerchino
un’anomala abbondanza di antimateria dello spazio, possibile indice di
intere galassie di antimateria presenti nel cosmo. In merito alla prima
ipotesi, va notato come essa potrebbe anche costituire un meccanismo che
faciliti la spiegazione della grumosità dell’universo all’interno
del modello attualmente più accreditato!
Venendo adesso alla possibile correlazione tra il fondo cosmico e un ipotetico
campo magnetico che permea l’universo, le faccio innanzitutto notare come
gli elettroni non possono essere in alcun modo assorbiti e riemessi da
un campo magnetico, perché questo violerebbe una buona manciata
di principi di conservazione delle fisica delle particelle; è invece
possibile che un campo magnetico ne devii il moto, e nel corso di questo
fenomeno generi la produzione di fotoni (radiazione di sincrotrone). In
tal caso, però, ritengo poco probabile che il fondo cosmico a microonde
si possa interpretare con il suddetto meccanismo, sia perché la
distribuzione spettrale non assumerebbe l’andamento plankiano riscontrato,
sia perché in tal caso la radiazione presenterebbe la caratteristica
di essere fortemente polarizzata, cosa che non mi pare sia mai stata messa
in evidenza.

(1)
Geller & Huchra, 1989, Science, 246, 897

(2)
J.
Einasto et al., Nature, 385, 139 – 141, 9 Jan. 1997