La mia ragazza si è convinta a fare l’esame del capello per scoprire eventuali intolleranze alimentari. Da una rapida ricerca su internet però, ho visto che tali esami – e la nozione stessa di intolleranza alimentare – non ha nulla di scientificamente fondato. Eppure questi esami sono condotti da dietologi, quindi medici professionisti … che ne pensate?

 

 Esecuzione di un "prick test"

 

Allergie e intolleranze alimentari

Le intolleranze alimentari sono un argomento di moda e sempre più soggetti sono convinti di esserne affetti. In realtà su questo tema circola purtroppo parecchia pericolosa disinformazione. Per fare un po’ di chiarezza occorre innanzi tutto distinguere la nozione di allergia alimentare da quella di intolleranza alimentare1.
Quando l’’ingestione di certi alimenti induce reazioni anomale in alcuni soggetti, queste ultime vengono distinte in due categorie: reazioni tossiche e non tossiche. Le prime dipendono dalla suscettibilità individuale verso alcuni alimenti e vengono a loro volta suddivise in immunomediate e non immunomediate. Il termine di allergie alimentari (AA) viene comunemente utilizzato per le prime, mentre le seconde vengono definite come intolleranze alimentari (IA).
 
Nelle allergie alimentari si manifesta il tipico meccanismo patogenetico immunologico IgE (immunoglobuline E) mediato che si verifica a seguito dell’ingestione dell’alimento o per inalazione dell’alimento aereodisperso durante la lavorazione o la cottura. Nelle reazioni allergiche un ruolo fondamentale è svolto da linfociti T allergene specifici, nel modulare sia le risposte IgE specifiche sia quelle cellulo-mediata specifiche per l’allergene. Le allergie alimentari hanno un’incidenza del 4-6% nei bambini e dell’1-2% negli adulti.
 
Nelle intolleranze alimentari il meccanismo di azione è differente e l’espressione “intolleranza alimentare” viene spesso utilizzata in maniera impropria. Sono infatti poche le intolleranze alimentari per le quali è noto il meccanismo in grado di determinarle e che possono effettivamente avere un ruolo nel provocare alcuni sintomi. Le intolleranze alimentari si dividono in:
 
1) Intolleranze enzimatiche: la più frequente e tipica è il deficit di lattasi su base genetica (chi ne è affetto ha problemi in seguito all’assunzione del latte). Intolleranze entero-enzimatiche acquisite si possono manifestare in conseguenza di diverse malattie dell’intestino e del pancreas.
 
2) Intolleranze farmacologiche: riguardano una particolare suscettibilità di alcuni pazienti a determinate sostanze (istamina, caffeina, solanina, tiratina, triptamina, feniletilamina, serotonina, teobromina) presenti in diversi alimenti che di per sé possono poi indurre, appunto in alcune persone, dei sintomi, specie se introdotte in dosi elevate.
 
3) Intolleranze da meccanismi sconosciuti o pseudoallergiche (da additivi): possono essere sostenute da differenti meccanismi patogenetici sia di tipo immunologico (attivazione del complemento, ipersensibilità di tipo ritardato) e sia di tipo farmacologico (inibizione della ciclossigenasi, attivazione dei mastociti e basofili, ecc.). Le stime della frequenza dei vari tipi di reazioni avverse agli additivi alimentari si basa su verifiche diagnostiche con test di provocazione orale (v. dopo).
 
Una intolleranza piuttosto diffusa nel mondo occidentale è quella nei confronti del glutine (morbo celiaco o celiachia). Per motivi genetici, i soggetti celiaci sono intolleranti al glutine, un gruppo di proteine presenti nel frumento, nell’orzo e nella segala. La malattia si manifesta con una varietà di segni e sintomi: accanto a forme cliniche pressoché silenti vi sono quadri di malassorbimento conclamato. La dieta del celiaco deve necessariamente essere priva di glutine per tutta la vita.
 
Metodi diagnostici
 
La diagnosi delle allergie e delle intolleranze alimentari è una procedura piuttosto delicata che deve essere eseguita da personale esperto utilizzando quelle metodiche riconosciute dalla comunità scientifica che hanno dimostrato in modo convincente la propria efficacia. Tra i metodi scientificamente riconosciuti citiamo i seguenti.
 
-Test cutanei. Le prove allergologiche cutanee con estratti allergenici alimentari devono essere eseguite mediante il cosiddetto “prick test”, in cui l’estratto allergenico viene posto in contatto con la pelle su cui viene praticato un piccolo graffio. Un problema ancora aperto è rappresentato dal fatto che gli allergeni alimentari in commercio non sono ancora sufficientemente standardizzati e, pertanto, sono possibili notevoli variazioni dell’esito del test impiegando prodotti di ditte produttrici diverse o anche di lotti differenti di una stessa ditta. Per tali motivi i test possono risultare falsamente positivi in un numero non irrilevante di casi, mentre i casi di falsa negatività sono meno frequenti. Nei casi in cui il prick test eseguito con gli estratti commerciali dovesse dare esito negativo e il dubbio diagnostico dovesse persistere è opportuno ripetere il test impiegando alimenti freschi utilizzando la tecnica del “prick by prick”. Questa tecnica è più sensibile e riproducibile e inoltre permette di testare alimenti non presenti tra i diagnostici, anche se pone evidenti limiti di praticità. Attualmente il valore predittivo positivo dei test allergologici cutanei per gli alimenti è dell’ordine del 50%, mentre il valore predittivo negativo è di oltre il 95% se paragonati al test di scatenamento in doppio cieco. In alcune condizioni, in particolare quando si sospetti una reazione allergica agli alimenti su base immunologica, ma non IgE-mediata, è possibile ricorrere anche al “patch test” che consiste nell’impiego di cerotti che veicolano l’alimento da testare. Nei pazienti in cui risultano positivi sia i prick che i patch test per allergeni alimentari è possibile, quindi, l’intervento di un meccanismo patogenetico sia IgE mediato che cellulo-mediato.
 
-Diete di eliminazione. Le diete di eliminazione si basano sul seguente principio: se l’eliminazione dalla dieta di un alimento sospettato determina la risoluzione dei sintomi, quel determinato alimento è virtualmente responsabile della sintomatologia. Se le manifestazioni cliniche continuano, deve essere posta in dubbio la diagnosi di AA. Al contrario, se i disturbi scompaiono è molto probabile che sia presente un’AA e pertanto è utile aggiungere nuovamente alla dieta i singoli alimenti mancanti. La ricomparsa della sintomatologia e la sua eventuale scomparsa in seguito a una successiva eliminazione costituiscono la prova formale del ruolo patogenetico di tali alimenti.
 
-Test di provocazione orale. In questi test l’alimento viene somministrato in quantità crescenti e si controlla quindi l’eventuale comparsa di reazioni. Essi rappresentano la prova più significativa ai fini diagnostici. Debbono essere mirati il più possibile vagliando attentamente i dati anamnestici e l’esito dei test cutanei e/o in vitro. Questo tipo di test può essere utile per la diagnostica delle forme di intolleranza nei confronti degli additivi alimentari. Sono particolarmente utili per definire il ruolo patogenetico di una sostanza (proteina alimentare o additivo) quando gli altri test disponibili sono negativi o poco significativi, oppure, nel caso di polisensibilizzazioni, per individuare con certezza l’agente causale dei sintomi. I test di provocazione orale non forniscono alcuna informazione sul meccanismo patogenetico, in quanto non sono in grado di discriminare tra AA e intolleranza alimentare. Il test di scatenamento in doppio cieco con placebo è da considerare il “gold standard” della diagnostica di AA per la conferma o la negazione di una reazione avversa a un alimento o ad additivi. Il test garantisce, inoltre, l’obiettività da parte del medico e consente, anche, una valutazione del coinvolgimento psicoemotivo da parte del paziente.
 
-Dosaggio delle IgE specifiche per allergeni alimentari. La necessità di ricorrere a questo tipo di esami è giustificata solo quando i test cutanei non sono in grado di fornire in maniera esauriente la prova della presenza di una sensibilizzazione specifica verso un determinato allergene alimentare oppure quando non sia possibile eseguirli. In un memorandum dell’OMS del 1988 sono state elencate le condizioni in cui esiste l’indicazione per eseguire, come prima scelta, il dosaggio delle IgE specifiche (dermografismo o grave dermatite che impediscono l’effettuazione di test cutanei; impossibilità di sospendere trattamenti farmacologici che inibiscono i test cutanei (ad esempio antistaminici); livelli di sensibilizzazione estremamente elevati, che potrebbero esporre il paziente a reazioni avverse ai test cutanei; necessità di testare allergeni non utilizzabili nei test cutanei (tossici, insolubili o fortemente sensibilizzanti). La ricerca delle IgE specifiche (RAST/CAP) deve essere mirata verso quegli allergeni che, in base ai risultati dei test cutanei e dei dati anamnestici, hanno maggiori probabilità di avere importanza nella patogenesi dei disturbi che interessano il paziente, e non in maniera generalizzata verso un’ampia varietà di allergeni. Purtroppo, ancora oggi vengono effettuate delle richieste indiscriminate da parte dei medici di medicina generale e, in alcuni casi, anche da parte di medici specialisti di “RAST alimenti” generico, senza che si tenga in considerazione il diverso “peso” degli allergeni alimentari in ambito clinico e della disponibilità di centinaia di allergeni, nonché del costo di ogni singola determinazione. Il dosaggio delle IgE specifiche sieriche completa o sostituisce i test cutanei, con cui condivide i limiti diagnostici della difficoltà di avere a disposizione degli allergeni standardizzati. Inoltre può dare dei falsi positivi per la cross-reattività tra alimenti o per quella tra alimenti e pollini. È quindi necessario che la prescrizione di questi test sia di competenza di un medico specialista con un adeguato bagaglio di conoscenze sull’etiopatogenesi delle sindromi allergiche. Va considerato che l’errata interpretazione di un test in vitro da parte di un medico non esperto in problemi allergologici, può orientare la diagnosi e quindi anche i provvedimenti dietetici e terapeutici in maniera non corretta con danno sia per il paziente e sia per la credibilità della specialità medica.
 
Un cenno particolare merita la diagnostica del morbo celiaco. La ricerca degli anticorpi antiendomiso (EMA) è il test che routinariamente viene utilizzato per lo screening sierologico della celiachia, con una sensibilità del 94% e una specificità del 100% circa. Il dosaggio degli anticorpi antitransglutaminasi tissutale (diretti contro l’autoantigene endomisiale transglutaminasi), di recente introduzione, ha dimostrato di possedere una sensibilità superiore, essendo in grado di recuperare soggetti celiaci (con dimostrata atrofia della mucosa) EMA negativi. Gli anticorpi antiglutine (AGA) sono dotati di una sensibilità e specificità molto bassa e non dovrebbero essere più utilizzati (perlomeno con l’entrata in commercio degli anticorpi antitransglutaminasi) Per formalizzare la diagnosi di celiachia è a tutt’oggi necessario eseguire la biopsia intestinale, che dimostri la presenza di alterazioni istologiche della mucosa compatibili con la diagnosi. La classificazione istologica è stata recentemente classificata in quattro stadi (classificazione di Marsh) che tengono conto del grado di infiltrato linfocitario della mucosa, di iperplasia delle cripte e di atrofia dei villi. Esistono poi una serie di alterazioni "immunologiche" (infiltrato di linfociti gamma/delta nella mucosa e di linfociti CD8) in grado di svelare l’attivazione immunologia caratteristica della mucosa del celiaco, e di rafforzare la diagnosi sospettata sierologicamente ed istologicamente. Sono descritti casi di soggetti EMA positivi con mucosa istologicamente normale che a distanza di sei mesi-tre anni hanno sviluppato la caratteristica atrofia dei villi. I test sierologici in alcuni casi paiono essere quindi più precoci nell’individuare il soggetto con intolleranza la glutine che svilupperà atrofia della mucosa intestinale. Peraltro la presenza di atrofia della mucosa intestinale potrebbe non essere necessaria per sviluppare la malattia da intolleranza al glutine (la celiachia) a manifestazioni esclusivamente extraintestinali e patogenesi autoimmune. A tutt’oggi comunque i test sierologici devono sempre confrontarsi con la biopsia intestinale per saggiare la loro "reale" sensibilità e specificità.
 
Se quelli fin qui elencati sono i soli test riconosciuti dalla comunità scientifica, è purtroppo vero che molti medici sottopongono i loro pazienti a test diagnostici del tutto inappropriati o addirittura privi di qualsiasi fondamento scientifico.
Tra i metodi diagnostici inappropriati vi sono quelli che possono avere una loro validità per la diagnosi di altre patologie, ma sono del tutto inadatti per individuare allergie e intolleranze alimentari e sono stati proposti sulla base di una interpretazione patogenetica errata della malattia allergica. Rientrano tra questi esami il dosaggio delle immunoglobuline totali sieriche, il dosaggio delle sottoclassi delle IgG, il dosaggio delle IgG specifiche per gli alimenti, la determinazione degli immunocomplessi circolanti, la conta degli eosinofili ematici e nelle feci, il dosaggio delle frazioni del complemento, la conta delle sottopopolazioni linfocitarie e della loro attività funzionale, il dosaggio delle citochine e dei loro recettori.
 
I metodi privi di fondamento scientifico sono numerosi e tra questi rientra anche, ahimè, l’analisi del capello citata dal lettore. Di seguito esaminiamo brevemente i metodi più diffusi mettendone in evidenza le critiche.
 
-Analisi del capello. Secondo coloro che lo praticano, questo esame avrebbe la capacità di individuare anomalie nel metabolismo di elementi minerali. In base ai risultati del test vengono poi formulati consigli dietetici e nutrizionali. Il professor Alessandro Fiocchi, capo Dipartimento materno Infantile dell’ Ospedale Macedonio Melloni di Milano ha dichiarato in merito2: “L’analisi del capello può consentire l’individuazione di sostanze tossiche, ma non certo degli allergeni. In ambito allergologico è stata studiata in particolare per l’allergia al pesce, ma non è stata trovata nessuna correlazione”. Alcuni anni fa dei ricercatori statunitensi hanno effettuato una prova molto semplice: hanno preso i capelli di una persona sana e li hanno inviati a 6 laboratori diversi. A seconda del laboratorio in cui i capelli erano stati analizzati il paziente è stato indicato come a rischio delle più svariate malattie, mentre il dosaggio dei singoli elementi analizzati presentava differenze di concentrazione anche di dieci volte fra i diversi laboratori.
 
-Vega test. Si basa sul presupposto, mai dimostrato, secondo il quale l’esposizione all’alimento sospetto possa provocare delle piccole variazioni nella resistenza elettrica della pelle a livello di uno dei punti previsti dall’agopuntura (va osservato che nei test l’alimento non viene neppure somministrato, ma viene semplicemente introdotto in una fialetta e fatto tenere in mano al paziente). Anche in questo caso lo scetticismo è d’obbligo: “Uno studio sull’allergia respiratoria effettuato da ricercatori inglesi indica che non esiste alcuna relazione”, commenta ancora il prof. Fiocchi. Per verificare l’attendibilità dell’indagine i ricercatori britannici avevano invitato tre operatori che ricorrevano usualmente al Vega test ad analizzare 15 persone con allergia agli acari della polvere e 15 non allergici. Dopo aver eseguito circa 1500 test i tre operatori non erano riusciti a distinguere gli allergici dai non allergici”. Il dottor Gian Enrico Senna, del Servizio di Allergologia dell’Azienda Ospedaliera di Verona, commenta così questo risultato2: “Si potrà dire che lo studio è stato fatto su pazienti con un’allergia respiratoria, ma quella agli alimenti si basa sugli stessi meccanismi, per cui si può presumere che il Vega test sia inadeguato per diagnosticare qualsiasi allergia”.
 
-Test kinesiologici. Si basano sulla presunta variazione della forza muscolare conseguente all’esposizione all’alimento incriminato. Anche in questo caso però l’alimento non viene somministrato e il paziente tiene in mano un contenitore al cui interno vi è l’alimento da testare. Con l’altra mano spinge quella del kinesiologo che sostiene di percepisce una variazione di forza nel caso di un’intolleranza. Si è provato a verificare l’attendibilità del test, mettendolo a confronto con gli esami tradizionali: in uno studio non si è osservata alcuna correlazione, mentre in un altro si è creduto di trovare una relazione fra i risultati dei test e i dosaggi degli anticorpi per una serie di alimenti. Il dott. Serra commenta: “Lo studio però era stato eseguito da neurologi che avevano utilizzato il dosaggio delle IgG che non vengono più considerate utili per diagnosticare le allergie”. (Per un approfondimento sulla kinesiologia applicata, si veda la mia precedente risposta all’indirizzo http://www.vialattea.net/esperti/php/risposta.php?num=7666).
 
– Test citotossico. Secondo i suoi sostenitori il test citotossico permetterebbe di diagnosticare l’intolleranza alimentare in quanto i globuli bianchi subiscono delle alterazioni, fino ad arrivare a rompersi, quando entrano in contatto con le sostanze nei confronti delle quali il soggetto sarebbe intollerante. Tali affermazioni sono prive di qualsiasi fondamento scientifico e qualche anno fa l’associazione degli allergologi americani aveva pubblicato un documento in cui si ribadiva la totale inutilità del metodo.  
 
 
Conclusioni
 
Come dicevamo in apertura quella delle intolleranze alimentari è una moda ampiamente diffusa e il numero di soggetti che sono effettivamente affetti da tali patologie è di gran lunga inferiore a quello di coloro che credono semplicemente di esserne vittima, senza che in realtà lo siano. Grandi responsabilità sulla diffusione di queste false credenze ricadono su quei medici, soprattutto alternativi, che non svolgono con adeguata competenza e serietà la propria professione. Il già citato dottor Gian Enrico Senna, a questo proposito ha dichiarato: “L’intolleranza alimentare diventa quasi una scusa, un po’ come accadeva in passato quando si tendeva ad attribuire tutto allo stress. Questo atteggiamento nasce in parte anche da questi test che trovano delle positività non documentabili invece con gli esami tradizionali». Anche la mancata distinzione tra allergia e intolleranza genera ulteriore confusione. Il citato prof. Fiocchi, senza giri di parole, ha dichiarato: “La differenza è semplicissima: l’allergia esiste, mentre le cosiddette intolleranze diagnosticate con metodi alternativi non esistono”.
 
 
Ringraziamento: desidero ringraziare il Prof. Giorgio Dobrilla, primario Gastroenterologo Emerito dell’Ospedale Regionale di Bolzano, per aver pazientemente letto la risposta prima della pubblicazione e avermi fornito il suo autorevole avallo.
 
 
Note:
 
1) Quanto segue è ampiamente tratto dalla relazione “Le intolleranze alimentari: mito o realtà?” di D. Macchia, M. Severino, G. Ermini, S. Testi, S. Capretti, M. Manfredi, P. Campi, presentata al Congresso Interannuale della Società Italiana di Allergologia ed Immunologia Clinica, Firenze 22-25 settembre 2004, e disponibile on line all’indirizzo: http://www.siaic.net/allegati/4165475f00ae512_intolleranze_alimentari.pdf
 
2) Intervista rilasciata al Corriere della Sera. Si veda l’articolo “Intolleranze tutte da dimostrare” di F. Marchetti, Corriere della Sera, 22 marzo 2005. L’articolo è disponibile on line all’indirizzo: http://www.corriere.it/Rubriche/Salute/Alimentazione/
2005/03_Marzo/09/ART_allergie%20alimentati-test%20alternativi_090105.shtml