Tommaso Busiello chiede: Vorrei sapere se esistono studi sulla pericolosità dei campi elettromagnetici emessi da elettrodotti a media tensione (inferiore a 30 kV), e in caso affermativo quali sono stati i risultati.

A ben guardare,
la domanda è leggermente malposta. In realtà sono stati
fatti e sono in corso numerosi studi per stabilire se il campo magnetico
a frequenza di rete (50 Hz in Italia) sia pericoloso ed a quali livelli,
ma senza riferirsi a priori al fatto che esso sia generato da un elettrodotto
di un tipo piuttosto che di un altro, oppure da un elettrodomestico o
da un apparato industriale per riscaldamento ad induzione etc. Si cerca
invece di stimare, in ogni situazione presa in considerazione, l’effettiva
intensità del campo magnetico presente, prendendo in considerazione
i contributi di tutte le sorgenti significative.

Sarebbe forse
più corretto domandarsi Sono stati fatti studi per stabilire
l’intensità del campo magnetico a 50 Hz generato da elettrodotti
a media o bassa tensione?
ma in realtà nessuno “studio”
particolare è necessario, quanto piuttosto la semplice applicazione
di algoritmi di calcolo noti, una volta che siano stati acquisiti i dati
geometrici ed elettrici delle linee interessate. Si è già
accennato a queste questioni in un’altra risposta,
alla quale rimandiamo quindi il lettore.

Più
interessante è invece chiedersi Perché si fannno studi
sulla pericolosità del campo magnetico?
Il fatto è che
da una parte sono ben noti gli effetti di una esposizione anche breve
a campi molto intensi (i cosiddetti effetti acuti), e
su questi sono basate quasi tutte le normative di sicurezza. Però
è ancora da chiarire se vi siano conseguenze sanitarie alle esposizioni
prolungate a livelli molto più bassi di quelli ammessi dalle normative
(effetti cronici) anche se, come dirò più avanti,
gli studi più recenti sembrano orientati a dare una risposta negativa.

Gli studi
scientifici sugli effetti del campo magnetico a bassa frequenza – o più
in generale dei campi elettromagnetici di qualunque frequenza – si possono
classificare in quattro tipologie diverse.

  1. Studi
    in vitro su colture cellulari, microorganismi, tessuti escissi.
    Indagini di questo tipo sono estremamente importanti per cercare di
    individuare un possibile meccanismo d’azione che renda conto dei conclamati
    effetti cronici. Purtroppo, fino ad oggi questo obbiettivo non è
    stato raggiunto.
  2. Studi
    in vivo su animali da laboratorio, sottoposti ad esposizioni
    prolugate a campi di varia intensità, per evidenziare eventuali
    conseguenze sanitarie o comportamentali.
  3. Studi
    (ormai sempre più rari) su volontari umani per analizzare
    gli effetti acuti delle esposizioni e valutarne le soglie.
  4. Studi
    epidemiologici su popolazioni umane esposte per motivi professionali
    (per esempio: lavoratori di aziende elettriche) o residenziali (abitanti
    nei pressi di elettrodotti) o, infine, comportamentali (individui
    che fanni ampio e frequente uso di apperecchi elettrici) per evidenziare
    eventuali associazioni statisticamente significative tra livello di
    esposizione ed incidenza di patologie di vario tipo.

Sono
proprio le indagini di quest’ultimo tipo ad aver alimentato, come è
noto, il sospetto di un aumento del rischio di leucemia infantile, a partire
dal primo, famoso lavoro di Nancy Wertheimer e Ed Leeper del 1979 e fino
grossomodo alla metà degli anni 90.

Il
quadro degli studi più recenti, ampi ed accurati, è però
notevolmente più tranquillizzante. Se consideriamo i 15 studi più
recenti recensiti in “Powerlines
and Cancer Frequently Asked Questions: Bibliography
” di John
Moulder, vediamo che almeno 11 di essi risultano negativi, nel senso che
riportano nessuna associazione o associazione non significativa tra esposizione
a campi elettrici e/o magnetici a frequenza di rete ed incidenza della
patologia indagata.

Se
si ha l’impressione che gli elettrodotti a bassa o media tensione non
siano in genere coinvolti in questi studi, è solo perché
il campo magnetico da essi generato è probabilmente, nella maggior
parte dei casi, di intensità irrilevante rispetto ad altre categorie
di sorgenti presenti sul teatro dell’esposizione. Questo NON è
dovuto alla bassa tensione (il campo magnetico NON dipende direttamente
dalla tensione sulla linea) ma alla corrente, relativamente poco intensa,
che questa tipologia di linee in genere trasporta e, soprattutto, a motivi
strutturali legati alla geometria dei tralicci, ovvero alla mutua posizione
dei vari conduttori che costituiscono la linea.