Con la scoperta dei sistemi planetari extrasolari (anche per il modo con cui si rilevano) se ne deduce che la struttura del sistema solare non può essere presa come esempio modello nella formazione dei pianeti. Mi sono chiesto come si spiega la presenza di giganti gassosi così frequentemente in orbite così vicine alla stella. Quanto può essere realizzabile usare l’interferometria ottica per la rivelazione di pianeti di tipo terrestre?


I modelli di evoluzione del sistema solare, riproducendo le
caratteristiche dei pianeti gassosi come Giove e Saturno, non sono
applicabili alla maggior parte dei pianeti extrasolari finora
individuati.
Nella figura sottostante vediamo infatti un grafico avente in ascissa
la distanza dei pianeti finora scoperti (in unità astronomiche). In
ordinata ci sono le stelle attorno a cui i pianeti sono stati scoperti
e ciascun pianeta è etichettato con la sua presunta massa.
Ricordiamo che Giove è un pianeta gassoso circa 320 volte più massiccio
dellaTerra, distante mediamente dal Sole oltre 770 milioni di Km,
ovvero, oltre 5 UA.
Una semplice osservazione sulla figura è che molti pianeti massicci si
trovano a distanze più piccole dalla stella rispetto a quanto succeda
nel nostro sistema solare, con i conseguenti problemi nelle fasi
evolutive, basti pensare ad esempio alle forze mareali.
Ciò ha, tra l’altro, condotto a ripensare i modelli di evoluzione dei
sistemi stellari, con tempi scala enormemente più piccoli di quanto
previsto in precedenza, anche per sistemi meno “compressi” come il
nostro.

La spiegazione del fenomeno delle osservazioni di pianeti gioviani su orbite piccole sembra essere duplice:

  1. da una parte potrebbe esserci una sorta di bias osservativo,
    nel senso che pianeti vicini e massicci hanno un effetto tale da
    rendere più facili le osservazioni sullo spostamento doppler,
    aumentando la probabilità che un sistema di questo tipo sia osservato
    rispetto a uno di tipo solare. Infatti la rotazione è molto rapida,
    quindi su qualsiasi osservabile di tipo spettrale o fotometrico è
    possibile fare misure ripetute su intervalli di tempo brevi, cosa
    invece molto difficile con pianeti lontati dalla stella, quando anche
    l’effetto fosse tale da essere osservabile;
  2. dall’altra parte, si sono sviluppate teorie dinamiche per spiegare comunque la presenza dei pianeti di tipo Hot jupiter
    su orbite vicine. Sono stati individuati fin dalla metà degli anni 90
    meccanismi dinamici il cui risultato è la migrazione da orbite più
    esterne: accoppiamento pianeta-disco circumstellare (migrazione con o
    senza l’apertura di un gap nel disco protoplanetario, Lin, Bodenheimer
    e Richardson, Nature 380, 606, 1996), scattering gravitazionale di un sistema di 3 o più pianeti gioviani (Weidenschilling e Marzaro, Nature 384, 619, 1996), scattering di planetesimi nelle fasi finali dell’evoluzione della nebula (Murray e altri, Science 279, 69, 1998).

Per dar
ragione del primo, occorre solo aspettare che le capacità osservative
siano tali da avere una statistica significativa anche per sistemi con
pianeti lontani, per cui si vedrà quali sistemi siano più frequenti in
realtà; per il secondo, la presenza di altri pianeti negli stessi
sistemi migliorerà la rispondenza tra i sistemi reali e i modelli. Allo
stato attuale infatti sia l’interazione gas pianeta che lo scattering
fra corpi massicci non riescono a spiegare completamente il fenomeno.
La prima porterebbe il pianeta a cadere nella stella o a subire
le forze mareali, il secondo necessita di condizioni al contorno
difficili da realizzare. Dunque probabilmente il modello deve tener
conto di tutti e tre i meccanismi.

Per
quanto riguarda la seconda domanda, l’interferometria, in generale,
combina la radiazione raccolta da due o più rivelatori (nel nostro caso
telescopi) posti a una distanza qualsiasi.
Sovrapponendo in modo opportuno i segnali ricevuti, sfruttando il
fenomeno dell’interferenza è possibile aumentare di molto il potere
risolutivo, in quanto esso aumenta con le dimensioni del rivelatore, e
la sovrapposizione fa si che l’effetto sia quello di un telescopio di
dimensioni pari alla distanza tra i rivelatori utilizzati.
Allargando la base dell’interferometro, si migliora la risoluzione
angolare, riuscendo a distinguere la luce emessa da sorgenti molto
vicine tra loro.
L’altra grandezza che entra in gioco nella capacità risolutiva è la lunghezza d’onda del segnale raccolto.

L’uso dell’interferometria stellare
ottica e infrarossa per la rivelazione dei pianeti è una delle
principali linee di sviluppo per l’osservazione dello spazio,
soprattutto grazie alla possibilità dell’interferometria dallo spazio,
con telescopi in orbita e quindi basi molto estese.

La ricerca dei pianeti di tipo terrestre è sicuramente per la NASA
e per l’ESA
un settore chiave nella ricerca spaziale, sia per le osservazioni da terra con ottica adattativa (Large Binocular Telescope e VLTI) che per le osservazioni dallo spazio (SIM,
TPF
e Darwin) .
Diverse
missioni sono in progetto (con date di partenza, per quelle spaziali,
tra il 2009 e il 2015) aventi tra gli scopi principali la ricerca di
pianeti terrestri attorno alle stelle più vicine, richiedendo una
accuratezza astrometrica molto elevata, per misure fino all’ordine di 1
ua, facendo il paio con l’interferometria IR che dovrebbe addirittura
studiare le condizioni su quei pianeti.

Quindi
non solo è realizzabile un interferometro ottico per lo studio dei
pianeti extrasolari, ma è proprio il metodo che si sta cercando di
sviluppare con il fine di riuscire a risolvere oggetti piccoli come i
pianeti, per questo sono state anche sviluppate alcune tecniche come il
nulling che usa una tecnica coronografica.

Per avere una panoramica completa sull’interferometria ottica è possibile seguire questo link.