Le forze inerziali che sollecitano un corpo in virtù del proprio moto sono da considerarsi forze di volume, cioè forze distribuite sul volume infinitesimo del corpo.Come se ne tiene conto in genere per valutare la resistenza dei materiali che nesono sollecitati?Nel caso di carichi statici la resistenza dei materiali risulta dal confronto della tensione ideale con il limite di snervamento del materiale.Come si puo considerare la presenza di carichi inerziali?Producono essi vibrazioni e in tal caso quale condizione sulle vibrazioni viene assunta per studiare la resistenza dei materiali?

Sì,
sono proprio forze di volume. Una struttura soggetta a un’accelerazione
costante si comporta come se fosse immersa in un campo gravitazionale
avente esattamente quell’accelerazione più, eventualmente, la gravità
“naturale”. Quindi, nel caso di accelerazioni costanti o lentamente
variabili, il calcolo non differisce gran ché dal normale calcolo
statico di strutture a cui si aggiunga il “carico distribuito”
dovuto all’accelerazione. Per lentamente variabile si intende qualcosa
che varia in tempi lunghi rispetto alla più lenta vibrazione propria
della struttura in esame.

Attenzione però che i carichi, anche se lentamente variabili,
possono sollecitare i materiali della struttura “a fatica”.
Prendiamo per esempio la fusoliera di un aereo di linea. A ogni decollo
la cabina va in pressione rispetto all’ambiente esterno, altrimenti soffocheremmo
per mancanza d’aria, e si gonfia un po’ come un pallone. A ogni atterraggio
la pressione esterna e interna si riequilibrano tanto da poter aprire
i portelli. Questi cicli certamente molto lenti rispetto a qualsiasi frequenza
propria della struttura possono essere benissimo trattati “staticamente”
per quanto riguarda il calcolo degli sforzi. Per quanto riguarda invece
la resistenza dei materiali, la tensione calcolata non deve essere paragonata
al carico di snervamento del materiale anche se con l’opportuno coefficiente
di sicurezza. Tutti sanno infatti che per spezzare una lamiera con le
mani basta piegarla in su e in giù un sufficiente numero di volte
con uno sforzo molto inferiore a quello che occorre per romperla. Negli
anni ’50 i primi jet civili, i tristemente famosi Comet, esplodevano in
volo proprio per il cedimento a fatica del materiale strutturale della
cabina sottoposto ai numerosi gonfiamenti/sgonfiamenti. Questo discorso
è a maggior ragione valido per il calcolo di strutture sollecitate
a sforzi alternati con frequenze alte. Qui il classico caso degli assi
dei vagoni delle ferrovie tedesche di inizio ‘900. Essi si rompevano a
carichi ben inferiori a quello di snervamento, anzi la loro durata (in
milioni di giri) era in funzione inversa del carico. Purtroppo, mentre
la resistenza “statica” è abbastanza ben controllabile,
quella a fatica dipende molto, oltre che dal tipo di materiale, dalla
lavorazione, dai trattamenti subiti, dallo stato delle sue superfici quindi
dalla corrosione quindi dall’ambiente in cui si trova a lavorare e da
tanti altri parametri che ora non ricordo. Pezzi di macchina, pesantemente
sollecitati a fatica, vengono infatti sostituiti periodicamente come se
fossero usurati pur non presentando visibili “logoramenti” superficiali.
In altre parole si riesce a garantire che “quel pezzo” con “quello
sforzo di picco” resiste a “tot milioni di cicli”. La “resistenza
totale” a fatica non può essere garantita mai se non altro
perché mancherebbe la prova “sperimentale” degli “infiniti
cicli”.

A tutto quanto sopra, per frequenze di sollecitazione elevate (inerziali
o no) paragonabili quindi alle frequenze proprie di vibrazione della struttura,
ai fenomeni statici occorre aggiungere i fenomeni dinamici veri e propri
con l’aggravante delle risonanze. A questo punto le masse e le elasticità
del “sistema struttura” entrano in ballo con fenomeni ben più
complicati del semplice calcolo statico. A mo’ di esempio, per i fenomeni
di risonanza, prendiamo un asse meccanico perfettamente levigato e bilanciato
che ruota su due bronzine perfettamente lubrificate e senza giochi significativi.
Con l’asse fermo misuriamo o calcoliamo le sue frequenze proprie di vibrazione
(fondamentale e armoniche quasi come se fosse una corda vibrante). Messo
in rotazione, vicino a regimi prossimi alle frequenze proprie, esso entrerà
“in risonanza” raggiungendo sforzi e deformazioni in grado di
danneggiarlo seriamente anche senza alcun carico. Occorre quindi nel progetto
tenere queste “frequenze proprie” di vibrazione ben lontane
dai regimi di rotazione d’esercizio. Dove, per varie ragioni, non fosse
possibile evitare che certe vibrazioni abbiano frequenze prossime a quelle
proprie della struttura, occorre inserire degli ammortizzatori che assorbano
continuamente l’energia evitando quindi eccessive “elongazioni”
della vibrazione che porterebbero a sforzi pericolosi, o persino alla
rottura. E’ il caso delle sospensioni di un’automobile che potrebbe trovare
asperità della strada con passo tale che a una determinata velocità
diverrebbero “sincrone” con la frequenza propria della massa
dell’automobile sulle molle. Ma anche i ponti molto lunghi, sopratutto
quelli metallici con grandi campate rischiano di subire un vento con raffiche
“sincrone” con la frequenza del ponte stesso. Anche qui occorre
dissipare l’energia con ammortizzatori.

Come si vede dai pochi esempi sopra citati, la trattazione di questi
fenomeni è estremamente complessa e irta di trappole. Spesso addirittura
le sollecitazioni dinamiche stesse sono note molto approssimativamente
in fase di progettazione, basta pensare agli sforzi esercitati da un terremoto
su una costruzione che si vorrebbe antisismica o a quelli esercitati sull’ala
di un aereo da un’improvvisa turbolenza.

Per fortuna certi materiali, quelli metallici, presentano una caratteristica
molto salutare per la sicurezza: la plasticità. Una struttura in
ferro, prima di crollare, si deforma in maniera permanente rovinandosi,
ma dando almeno il tempo di scappare. Anche qui però la riserva
di plasticità del materiale può essere drasticamente ridotta
da fattori quali lavorazioni estreme come in acciai ad altissima resistenza,
piegature e “correzioni” fatte in fase di montaggio o di messa
in opera, accumulo di “fatica” durante l’esercizio per non parlare
di irraggiamento neutronico e chissà quant’altre.

Il ferro infragilito si comporta un po’ come la pietra: non “avverte”
prima di cedere. La differenza sta purtroppo anche nei diversi coefficienti
di sicurezza: costruendo in pietra si stava molto più prudenti
proprio perchè fragile. Col ferro invece… ci si fida di più!