Vorrei sapere come , dalle curve di luce delle supernovae Ia , si possano ricavare informazioni sulla costante di Hubble in particolare cosa sono e a cosa servono il k-correction, la relazione di Phillips e il parametro di stretch.Grazie

La costante di Hubble H appare nella formula v = H D, dove D è
la distanza di una galassia e v è la velocità con cui si
allontana radialmente da noi (conseguenza diretta dell’espansione dell’Universo).
Il fatto che H sia una costante significa che più una galassia
è lontana, più si allontanerà velocemente. Se ne
misuriamo la velocità di recessione, conoscendo H otterremo la
sua distanza. Misurare la velocità di recessione è relativamente
semplice: basta ottenere uno spettro della galassia, ossia scomporne
la luce nelle sue varie lunghezze d’onda (ciò che accade alla luce
solare quando passa attraverso un prisma, per intenderci). Occorre solo
(si fa per dire) un telescopio abbastanza potente.

Il difficile è conoscere H con una certa precisione. Per calibrare
la relazione tra v e D (detta anche relazione di Hubble) ci servono
metodi alternativi con cui misurare la distanza di un certo numero di
galassie, ma non siamo liberi di scegliere galassie qualunque. Perché
no? Perché la nostra misura di velocità radiale comprende
sia il moto di espansione cosmologica (quello che ci interessa), sia i
cosiddetti moti peculiari, che con la cosmologia non c’entrano
e “inquinano” l’effetto che vogliamo studiare. Siccome la velocità cosmologica
aumenta all’aumentare della distanza, solo in galassie molto lontane sarà
sufficientemente elevata da rendere trascurabile il contributo dei moti
peculiari.

Parecchi di questi metodi alternativi per la misura delle distanze fanno
uso delle cosiddette candele standard, ossia di oggetti che hanno
una luminosità nota e costante nel tempo (particolare quest’ultimo
da non trascurare, in quanto, a causa della velocità finita della luce,
oggetti via via più lontani ci appaiono com’erano in epoche sempre
più remote). Conoscendo la luminosità assoluta di questi
oggetti, e misurando quella apparente, saremo in grado di stabilirne
la distanza. Proprio qui entrano in gioco le supernovae Ia: sono
candele standard, con la gradita proprietà aggiuntiva di essere molto
luminose, e quindi visibili fino a distanze enormi.

Le supernovae di tipo Ia (ci sono altri tipi di cui non parleremo) sono
eventi esplosivi originati da coppie di stelle alquanto eterogenee: una
nana bianca, grande all’incirca quando la Terra ma con una massa
paragonabile a quella del Sole (ovvero oltre trecentomila volte quella
del nostro pianeta), il cui potente campo gravitazionale attira a sé
gli strati più esterni di una gigante rossa, ben più
grande del Sole. Questo materiale, accumulandosi sulla superficie della
nana bianca, ne provoca infine il collasso gravitazionale, innescando
reazioni di fusione nucleare, le stesse che forniscono energia
al Sole. Mentre però nella nostra stella il processo avviene in
modo controllato, in questo caso si tratta di un gigantesco fuoco d’artificio
che rende la stella luminosa quanto l’intera galassia che la ospita (e
in una galassia tipica ci sono qualcosa come cento milardi di stelle).

Il bello è che la forma della curva di luce delle supernovae
Ia (cioè l’andamento della luminosità col passare del tempo)
e la luminosità massima sono molto simili per tutti gli oggetti
di questa classe, ed è questo che li rende candele standard così
preziose, strumenti indispensabili nel cercare di stabilire il vero valore
della costante di Hubble.

Sembra un quadro allettante, ma ci sono alcuni trabocchetti che vanno
neutralizzati con opportune correzioni: cominciamo dalla cosiddetta correzione
K
. Prendiamo il discorso alla lontana: ogni strumento astronomico
è un po’ come l’occhio umano, ovvero riceve la luce degli oggetti
celesti solo all’interno di certi filtri, che delimitano un intervallo
relativamente ristretto di lunghezze d’onda, ed è cieco a tutto
il resto (l’occhio umano, per esempio, non può vedere raggi X o
microonde, che pure sono radiazioni del tutto analoghe alla luce visibile).
Il guaio accade quando ci si mette di mezzo il redshift, o “spostamento
verso il rosso”, provocato dall’espansione dell’Universo, a causa del
quale la luce di oggetti lontani ci arriva con una lunghezza d’onda sistematicamente
maggiore di quella a cui è stata emessa. Si tratta dello stesso
effetto che ci permette di misurare le velocità di allontanamento
delle galassie, ma ha lo spiacevole effetto collaterale di spostare all’interno
del nostro filtro porzioni differenti della luce emessa da un oggetto,
via via che il redshift aumenta. Siccome gli oggetti celesti hanno spesso
una “faccia” completamente diversa se visti in zone diverse dello spettro
elettromagnetico, potremmo avere l’impressione erronea che la nostra candela
standard non sia poi così standard. Peggio ancora, potremmo usare
luminosità non corrette per derivare distanze completamente sbagliate.
Applicando la correzione K, la luce di oggetti a diversi redshift può
essere confrontata in modo consistente, in base alla lunghezza d’onda
con cui è stata emessa, e non quella con cui l’abbiamo ricevuta.

Veniamo ora al parametro di stretching, ovvero di “stiramento”,
noto anche come stretch factor. Mentre la correzione K si prendeva
cura di un effetto cosmologico, che nulla ha a che vedere con la fisica
di una supernova, in questo caso (e nel prossimo) le cose stanno diversamente.
In effetti le curve di luce delle supernovae Ia sono molto simili tra
loro, come abbiamo detto prima, ma non sono totalmente identiche.
Perciò una curva di luce “tipica” difficilmente si adatterà
alla perfezione a tutte le curve di luce reali. Lo stretch factor è
un fattore che “stiracchia” o “comprime” questa curva di luce tipica,
in modo da allungare o accorciare il lasso temporale che essa occupa,
migliorando notevolmente l’accordo con le curve reali.
Certo, per misurare le distanze ci basterebbe la luminosità massima,
ma si dà il caso che essa sia legata alla curva di luce dalla terza
ed ultima correzione, la relazione di Phillips, di cui parleremo tra poco.
Dal punto di vista fisico, lo strecth factor può essere dovuto
a una variazione dell’opacità, dipendente dalla temperatura, nell’atmosfera
della supernova (che quindi sarebbe più o meno “trasparente” a
seconda dei casi).

La relazione di Phillips, dicevamo. Abbiamo appena visto che le curve
di luce non sono poi tutte uguali tra loro, e anche le luminosità
massime si comportano in modo simile. La relazione di Phillips afferma
infatti che la luminosità massima in ciascuna banda (sinonimo
per “filtro”) è correlata con il tasso iniziale di declino della
curva di luce nel filtro B, che ha il proprio picco a una lunghezza
d’onda di circa 440 nanometri (milionesimi di millimetro), nella parte
blu dello spettro visibile. La dispersione nelle luminosità di
picco che ne deriva è maggiore in B e diminuisce spostandosi a
lunghezze d’onda maggiori, verso il rosso e l’infrarosso. Ovviamente l’effetto
della relazione di Phillips, se non corretta, sarà un certo errore
nella determinazione della distanza, più o meno grande a seconda
della banda di osservazione.

Volendo entrare nei dettagli matematici della relazione, la cosa migliore
è ascoltarli dalla viva voce di Phillips stesso, nella pubblicazione
originale in cui la introdusse (Astrophysical Journal Letters,
volume 413, pagina 105, 20 agosto 1993). Si tratta di una relazione lineare
(descritta cioè da una linea retta in un grafico) tra la magnitudine
della supernova al suo massimo, in una certa banda, e la differenza in
banda B tra la magnitudine al massimo e quella osservata quindici giorni
più tardi. Per dirla in formule:

Phillips riporta i valori seguenti di a e b per i filtri B,
V (picco a 550 nanometri) e I (picco a 900 nanometri). Tra parentesi le
incertezze delle misure:

  • Filtro
    B: a = -21,726(0,498), b = 2,698(0,359)
  • Filtro
    V: a = -20,883(0,417), b = 1,949(0,292)
  • Filtro
    I: a = -19,591(0,415), b = 1,076(0,273)

Il fatto che il coefficiente angolare b (ovvero la pendenza della
retta) diminuisca andando da B ad I è la traduzione in linguaggio
matematico dell’affermazione fatta prima: andando verso l’infrarosso,
la dispersione della magnitudine al massimo dovuta all’effetto Phillips
diminuisce.