Come è possibile che gli scienziati affermano di essere molto vicini ad individuare l’ istante in cui avvenne il big bang con i loro telescopi se il punto ove era concentrata tutta la massa dell’universo aveva le dimensioni di un protone a distanza di 15 miliardi di anni-luce da noi, quando non individuano pianeti al confine del sisema solare?

La stampa non specialistica ha a volte, negli ultimi anni, fatto riferimento con titoli sensazionalistici ai primi istanti del big-bang, alludendo addirittura alla possibilità di “fotografare” il fatidico evento, che si sarebbe resa possibile grazie ai recenti progressi tecnologici della strumentazione astronomica, segnatamente di quella con base nello spazio.

 
la “fotografia” dell’Universo quando aveva solo 300.000 anni

In realtà le osservazioni astronomiche non hanno alcuna chance di rilevare segnali elettromagnetici provenienti direttamente dai primi istanti successivi al big-bang, poiché per circa 400.000 anni dopo tale evento i fotoni che attualmente costituiscono il fondo cosmico a microonde interagirono con il plasma ionizzato (in particolare con la componente elettronica), in via di raffreddamento per via dell’espansione globale dell’universo, senza avere la possibilità di propagarsi liberamente nello spazio.
La radiazione elettromagnetica potè fluire senza ostacoli solo a partire dall’epoca cosmica della “ricombinazione” quando, per via della diminuzione della temperatura del plasma primordiale, le particelle elementari della materia ordinaria (essenzialmente protoni, nuclei di elio ed elettroni) riuscirono a combinarsi finalmente in atomi elettricamente neutri rendendo possibile, per la prima volta dopo il big-bang, il disaccoppiamento fra materia e radiazione.

Nel linguaggio della cosmologia moderna le diverse epoche cosmiche sono in genere contraddistinte dal valore del redshift ad esse associabile (indicato con la lettera z), che esprime l’entità dello spostamento verso lunghezze d’onda maggiori della radiazione elettromagnetica, causato dall’espansione dell’Universo, nel suo percorso dalla sorgente all’osservatore: indicando con Le la lunghezza d’onda all’emissione e con Lo la lunghezza d’onda osservata si ha per definizione z = (Lo – Le)/Le. Poiché le lunghezze d’onda Lo e Le stanno tra loro nello stesso rapporto del fattore di scala dell’espansione nelle rispettive epoche è possibile riscrivere l’espressione per il redshift nel modo seguente
1 + z = Lo/Le = a(to)/a(te) , dove con a(t) si indica il fattore di scala dell’espansione al tempo cosmico t.
Vediamo quindi che la grandezza 1 + z misura di quante volte sia aumentata la distanza tra gli oggetti cosmici per effetto dell’espansione cosmologica durante l’intervallo di tempo cosmico Dt  = (to – te); ebbene, l’epoca della ricombinazione, manifestatasi come già detto circa 400.000 anni dopo il big-bang, corrisponde grosso modo a un redshift z = 1100 e a una temperatura del plasma primordiale di 3000 K, ovvero a un’epoca in cui le distanze tra gli oggetti cosmici (o meglio tra i loro lontani precursori, visto che allora la formazione delle prime stelle non era neppure lontanamente cominciata) erano circa 1100 volte inferiori di quelle attuali.

Il fatto che in passato le galassie siano state più vicine tra loro e la materia e l’energia dell’Universo più concentrate non significa tuttavia che l’Universo nella sua totalità fosse meno esteso di quanto sia ora: se la Relatività Generale descrive correttamente la dinamica e la geometria su vasta scala del Cosmo e se, come sembrerebbe dalle risultanze fin qui disponibili, l’Universo è “piatto” (densità di energia uguale alla densità critica) allora esso deve essere, e deve essere stato sempre anche in passato, infinito; è unicamente la porzione finita di spazio-tempo potenzialmente accessibile all’indagine fisica diretta, ovvero quella compresa entro l’orizzonte di un generico osservatore a una data epoca, ad essere stata in passato via via più piccola, fino ad assumere dimensioni microscopiche a ridosso del big-bang.
Ma di quest’epoca primordiale non possiamo avere nessuna esperienza diretta tramite i nostri telescopi né, in ogni caso, potremmo averla nel senso tratteggiato nella domanda, come se l’Universo fosse un oggetto microscopico lontano da noi che fosse possibile osservare dall’esterno e da grandi distanze: l’Universo è “il tutto” e tutto comprende, e noi esseri umani ne facciamo parte come qualsiasi altro oggetto fisico e possiamo osservarlo, per così dire, esclusivamente dall’interno.

Ciò che è stato effettivamente osservato e “fotografato” (il termine è da intendersi in senso puramente figurato) in recenti esperimenti di cosmologia sperimentale, come Boomerang e Wmap, non è stato quindi una sorta di ipotetico “atomo primordiale” localizzato in qualche punto del cielo, come sembra suggerire la domanda, bensì il dettaglio della distribuzione angolare sull’intera sfera celeste delle anisotropie di temperatura della radiazione cosmica di fondo a microonde (CBR) , la quale dell’epoca della ricombinazione è l’antichissima testimonianza fossile.
L’epoca della ricombinazione costituisce quindi, dal punto di vista pratico, il nostro orizzonte osservativo al presente, che non è possibile valicare, neppure in linea di principio, tramite rilevazioni di radiazioni elettromagnetiche, per il medesimo motivo che c’impedisce di osservare direttamente le zone interne alla fotosfera del Sole.
Ho parlato di orizzonte osservativo al presente, poiché le teorie correntemente accettate che descrivono le condizioni fisiche esistenti nelle prime fasi caldissime dell’Universo (“Hot Universe”) prevedono l’esistenza di altri fondi di radiazione di origine cosmologica, costituiti da neutrini o dalle ancora più elusive onde gravitazionali.
La tecnologia attuale non permette però di rilevare direttamente queste due tipologie aggiuntive di radiazione fossile (peraltro le onde gravitazionali non sono ancora mai state rilevate direttamente, sebbene nessuno dubiti seriamente della loro esistenza), che consentirebbero di spostare all’indietro il limite dell’attuale orizzonte osservativo, posizionandolo ad appena qualche secondo dopo il big-bang, nel caso dei neutrini cosmologici, e a istanti ancora più prossimi, nel caso del fondo di onde gravitazionali.
Quand’anche potessimo osservare direttamente, poniamo, il fondo cosmologico di neutrini, esso non ci apparirebbe tuttavia né piccolo né localizzato spazialmente, ma diffuso sull’intera sfera celeste, analogamente a quanto accade per il CBR. La sola differenza consisterebbe nel fatto che eventuali strutture rilevabili nel fondo di neutrini corrisponderebbero, a parità di estensione angolare sulla sfera celeste, zone spazialmente meno estese di quelle di analoga ampiezza angolare rilevabili nel fondo di radiazione a microonde.

In conclusione la determinazione dell’epoca, più che dell’istante preciso, in cui si verificò il big-bang viene stimata teoricamente, e con un certo grado d’indeterminazione, valutando l’età l’Universo corrispondente ai modelli cosmologici ritenuti di volta in volta più promettenti. Nel caso del modello standard della cosmologia contemporanea, il cosiddetto “modello di concordanza LambdaCDM”, caratterizzato da una densità di energia complessiva pari a quella critica, di cui il 30% circa sottoforma di materia (non barionica + barionica) e il 70% circa sottoforma di energia oscura, con la costante di Hubble al presente Ho = 70 km/s/Mpc , tale età risulta pari a circa 13,5 miliardi di anni.